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La crisi dell’obbedienza
Obbedire è meglio-Le regole della Compagnia dell'agnello
Tutti cerchiamo il segreto della felicità. Qualcuno vorrebbe convincerci che si trova nell'assoluta libertà. E se, al contrario, quel segreto si nascondesse nell'obbedienza? Obbedienza a come la natura ci ha creati, alle regole di saggezza che i secoli hanno tramandato; obbedienza alla propria vocazione, ai consigli di chi ne sa, e perfino a quel marito o a quella moglie il cui amore forse è da riscoprire. Insomma, non fidiamoci troppo di noi, dei nostri sentimenti a volte strampalati, ma indossiamo, quando ce n'è bisogno, un abito di umiltà. I problemi, anche quelli più difficili, appariranno in una luce diversa e cominceranno a risolversi. Costanza Miriano racconta, con spirito vulcanico, la propria vita, frenetica e divertente - quattro figli, due lavori - e quella dei suoi amici molto speciali, che lei chiama la Compagnia dell'agnello. In dieci capitoli popolati da eroi della vita quotidiana alle prese con piccole e grandi battaglie, per le quali le energie sembrano non bastare mai, ci vengono presentati altrettanti esempi virtuosi di uomini e donne che ce la fanno: a tenere unita la famiglia, a crescere i figli, a rimboccarsi le maniche sul lavoro, a non avere paura degli anni che passano. A ognuno di noi è capitato un posto di combattimento, una piccola fetta di trincea. L'importante è sapere che accettare la realtà, non ribellarvisi, farsi docili e ascoltare le ragioni degli altri, ci rende molto più forti.
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È una banalità constatare che le persone non sanno più ubbidire: i figli ai propri genitori, gli studenti ai loro professori, i cittadini allo Stato ecc.
Ma sono in grado di comandare in maniera migliore? È un altro luogo comune quello di lagnarsi che i veri capi – cioè gli uomini capaci di prendere una decisione e assumersene le responsabilità – stiano diventando sempre più rari. Il vecchio imperativo: « nella vita bisogna tuffarsi » ha ceduto il posto al riflesso della fuga: « prima di tutto, non bagnarsi ».Scriveva profeticamente Nietzsche circa cento anni fa: « Nessuno più vuole comandare, nessuno più vuole obbedire: sono due cose troppo difficili ».Diciamo piuttosto che si rivelano difficili, se non impossibili, nella misura in cui si elimina, dalle istituzioni come dai costumi, quel patto sociale spontaneo che è il fondamento comune dell’autorità e dell’obbedienza.Il vero leader in effetti non comanda in maniera casuale per il solo piacere di comandare: ordina quanto giudica necessario al buon funzionamento dell’organismo sociale al quale è vincolato come la testa è saldata al corpo, e il cui interesse coincide col proprio. Allo stesso modo colui che obbedisce acconsente liberamente a una disciplina di cui riconosce interiormente i benefici. In altri termini, l’autorità e l’obbedienza scaturiscono dal medesimo principio: l’adesione a una necessità superiore in seno alla quale gli uomini, quale che sia il loro rango o la loro funzione, si sentono solidali e responsabili gli uni degli altri.In passato ho introdotto la nozione di comunità di destino per designare l’ambiente sociale in cui gli individui, imbarcati sul medesimo vascello, si dirigono verso lo stesso obiettivo e condividono le speranze e i rischi della traversata. Laddove esistono simili gruppi l’autorità e l’obbedienza non pongono problemi. Prendiamo un esempio limite: in quella comunità accidentale ed effimera formata dai passeggeri e dall’equipaggio di un aereo di linea nessuno contesta le manovre del pilota né, in caso di pericolo, le consegne delle hostess.Lo stesso accade in una famiglia unita, in un’impresa animata da leader immediatamente presenti, alla mano e responsabili, in una scuola dove i professori e gli allievi intrattengono degli scambi diretti e personali, in uno Stato ben strutturato ecc.Il malessere ha inizio nel momento in cui il rapporto tra l’interesse personale e l’interesse generale non viene più percepito con chiarezza da ogni membro della comunità. Allora la società si fraziona in individui o in gruppi di pressione i cui interessi divergenti non possono conciliarsi che attraverso compromessi traballanti e sempre rimessi in questione. « Il pesce marcisce dalla testa » afferma un proverbio orientale. Detto in altro modo, la prima responsabilità della crisi dell’obbedienza ricade sugli elementi dirigenti.È nelle famigile disunite, dove i genitori non rispettano la legge fondamentale della coppia, che incontriamo la maggior parte dei figli refrattari e rivoltosi.È nelle imprese gigantesche e in misura particolare negli iperorganismi di Stato, dove i capi distanti e irresponsabili non condividono più il destino dei lavoratori, che più dilaga l’agitazione sociale. Ho citato di recente il caso di quei minatori svedesi che hanno scatenato uno sciopero « irrazionale », non solo contro le direttive padronali ma anche contro i propri sindacati, semplicemente perché esausti di essere comandati attarverso dei computer e non da uomini.È in una università come quella di Nanterre, dove migliaia di studenti che non hanno alcun contatto reale con dei professori paracadutati da Parigi si sono acquartierati in una sinistra banlieu, che la contestazione raggiunge il suo vertice. Si invocherà l’influenza dei professionisti della sovversione, ma un simile ambiente fornisce loro il brodo di coltura ideale. La crisi è stata sentita assai meno nelle università delle piccole cittadine di provincia…E in politica? Chi oserebbe mai affermare, senza mettersi a ridere, che esiste un qualche legame organico tra un deputato e i suoi elettori? Ed è una delle principali ragioni dell’agonia del senso civico…In una simile temperie l’uomo non ha scelta che tra la rivolta e l’obbedienza passiva. L’una e l’altra del resto operano in concomitanza: la rivoltà contro le autorità naturali decadute e l’obbedienza servile nei confronti delle false autorità. Perché è noto che i nostri sedicenti ribelli obbediscono, in alcuni campi, con una docilità esemplare. Ma a chi e a cosa?Le donne emancipate e « decolonizzate », che vogliono affrancarsi dal matrimonio e dalla maternità, non contestano l’autorità delle mode più stravaganti. Se necessario, esse esagerano all’eccesso in cattivo gusto…Si ricusano le tradizioni ma si ubbidisce alla propaganda: qualsiasi assurdità opportunamente orchestrata attira le folle dietro di sé. Si « desacralizza » la religione, ma si adorano i « mostri sacri » della canzone o dello schermo. E che dire del potere esorbitante degli agitatori rivoluzionari nei confronti delle masse cieche e teleguidate?Il peggio è che questo groviglio di schiavitù, in cui il riflesso condizionato sostituisce il pensiero e il sentimento, dà l’illusione, per via della sua varietà e mobilità, della spontaneità e della scelta. La marionetta si crede tanto più libera quanto più delle mani estranee tirano le sue fila in ogni direzione.Si obbedisce sempre: occorre scegliere tra l’obbedienza del membro vivente al principio interiore, che assicura l’unità dell’organismo, e la docilità della polvere al vento che la trascina via.Da qui l’urgenza di restaurare, nello spirito degli uomini, il principio comune dell’autorità e dell’obbedienza. In una società sana, le nozioni di capo e di subordinato sono assai relative e corrispondono alla medesima finalità. Ognuno è capo nel senso che ciascuno è responsabile di se stesso e dell’incarico, per quanto umile esso sia, che la comunità gli ha affidato. E ognuno è subordinato nel senso che ciascuno, compresi i capi più grandi, è al servizio del bene comune.(Articolo originale: La crise de l’obéissance, «La Libre Belgique», n. 155, 4 giugno 1970; traduzione redazionale)© Copyright Henri de Lovinfosse, Waasmunster (Belgique)
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