Per la prima volta oggi si celebra la memoria liturgica di Giovanni Paolo II, dopo che papa Francesco lo ha proclamato santo lo scorso 27 aprile. Di seguito pubblichiamo un vecchio articolo di Tempi, in cui si rivelavano i contenuti delle testimonianze utilizzate per aprire il processo di beatificazione di Karol Wojtyla.
«È stato un uomo che ha bruciato e fatto bruciare: ignis ardens. Questo ha affascinato e convertito il mondo». «La sua speranza era Cristo. Per lui non c’erano cose impossibili». «L’attentato del 13 maggio 1981 fu uno shock per tutto il mondo. Vide chiaramente la protezione della Madonna in questa circostanza. Diceva che mentre lo stavano portando in ambulanza al Policlinico, prima di perdere conoscenza, ebbe la strana certezza che non sarebbe morto. Crebbero in lui la fiducia e l’amore per la Madre Santissima e la gratitudine per il Signore perché gli aveva donato la vita una seconda volta. Dopo non cambiò il suo modo di incontrare la gente. Andava verso la gente con coraggio e non aveva paura».
Queste sono alcune delle frasi contenute nelle testimonianze rese al Tribunale di Cracovia, organo ecclesiale che si è occupato di chiudere la prima fase del processo di beatificazione di Giovanni Paolo II. A parlare sono amici d’infanzia e compagni di seminario, addetti della curia e suoi primi parrocchiani. Ma anche importanti uomini politici che hanno fatto la storia del paese dell’Est come il generale
Wojciech Jaruzelski e l’ex presidente Aleksander Kwasniewski.
Sono testi inediti e coperti da segreto. O meglio, come spiega a
Tempi Annalia Guglielmi, che dal Tribunale ha ricevuto il compito di tradurre in italiano le testimonianze, «di esse non può essere rivelato né il nome del testimone né l’occasione cui si fa riferimento». Annalia è una tomba e si rifiuta di offrire a
Tempi altri dettagli. Tuttavia, come si vede dalla seguente selezione del materiale, di molte testimonianze è ricostruibile se non la specifica occasione, perlomeno il contesto generale. Jaruzelski e Kwasniewski hanno rivelato anche pubblicamente le loro impressioni sul Pontefice. Ha detto Jaruzelski, il generale che proclamò lo stato di guerra il 13 dicembre del 1981: «Sulle questioni fondamentali assunse un atteggiamento intransigente. Per noi era molto pericoloso». Per il generale, Wojtyla fu «un terremoto». Ma oggi, ripensando a quel che accadde, si è proclamato «pentito e sofferente». Si è spinto fino a
chiedere «perdono»: «Mi vergogno di certe parole e di certi eventi». Come in una sorta di esame di coscienza, l’esponente comunista ha ammesso che «la sofferenza, il martirio, così evidente nei suoi ultimi anni di vita, sono la santità». Dopo queste ultime parole, come per un moto di pudore, ha ammesso: «Non sono io a dover dare giudizi teologici, ma questo è ciò che penso». Il generale ha confidato una personale impressione: «Non era possibile discorrere con il Papa senza sentire per lui una grande simpatia. Era maestoso, eppure semplice e cordiale. Non c’era in lui nessun senso di superiorità. Più di una volta mi ha detto: “Generale, la prego di ricordare le parole del re Sigismondo Augusto: ‘Non sarò re delle vostre coscienze’”».
«Era una minaccia: diceva la verità». Da par suo, l’ex presidente Kwasniewski, che, dopo l’esperienza politica poco felice di Lech Walesa, guidò con un governo di sinistra la Polonia dal 1995 al 2005, ha affermato: «Se il Papa era una minaccia per qualcuno, era solo perché diceva la verità. Libertà invece che schiavitù, l’uomo e non il collettivismo, libertà religiosa, tolleranza». Kwasniewski ha ricordato che «l’elezione a Pontefice del cardinal Wojtyla ci sorprese. Il ritardo con cui quel giorno andò in onda il telegiornale è un segno che l’elezione aveva colto di sorpresa le autorità». Gli è rimasto impresso un particolare: «Il giornalista era confuso. Un attimo dopo l’annuncio suonarono le campane di tutte le chiese». Ha riferito che «il partito era convinto che “in qualche modo” saremmo sopravvissuti alla prima visita del Papa in Polonia nel 1979, e che “in qualche modo” saremmo sopravvissuti allo stesso Giovanni Paolo II. Tutte le discussioni sulla data, il percorso, i luoghi della visita, sono state un enorme equivoco, lontano dallo stato d’animo della società». L’ex presidente parla di quella occasione perché, col senno di poi, chi contrastò il viaggio «è stato seppellito dalle sue decisioni. Il Papa si rivelò essere il vincitore. Le decisioni prese dai comunisti sono solo motivo di vergogna».
Come ha rivelato il cardinale Camillo Ruini subito dopo la morte di Giovanni Paolo II (2 aprile 2005), quando ancora si stavano svolgendo le Congregazioni generali precedenti il Conclave che avrebbe portato sul soglio pontificio Joseph Ratzinger, «mi fu consegnata una lettera firmata da moltissimi cardinali che si univano alla richiesta del popolo perché si avviasse subito il processo di canonizzazione». Tradizione vuole che passino cinque anni prima che si apra il processo. Nel caso di Giovanni Paolo II, però, da un lato le celebri richieste della piazza («santo subito»), dall’altro il beneplacito di Benedetto XVI, hanno fatto sì che il procedimento iniziasse e procedesse con ritmi rapidi. Il 13 maggio 2005, Benedetto XVI ha annunciato essere sua intenzione avviare la causa di beatificazione. La cerimonia d’apertura ufficiale si è tenuta in San Giovanni in Laterano il 28 giugno 2005 ed è stato scelto come postulatore monsignor Slawomir Oder. Il 4 novembre 2005 è stato istituito il tribunale polacco con il compito di raccogliere testimonianze sulla vita di Wojtyla. Presidente è stato nominato il vescovo Tadeusz Pieronek che ha consegnato il proprio lavoro in Vaticano il 1° aprile 2006, primo anniversario della morte del Papa. Intanto ad Aix-en-Provence si è svolto il processo informativo sulla guarigione straordinaria dal morbo di Parkinson di suor Marie Simon-Pierre che si è concluso il 23 marzo 2007. Tutto il materiale raccolto è stato consegnato alla
Congregazione delle cause dei santi. Qui di seguito sono riportate, tramite il dialogo con Annamaria Guglielmi, alcune delle 29 testimonianze polacche (il totale di quelle raccolte in tutto il mondo s’aggira sulla sessantina).
I frammenti vanno a raccontare “da vicino”, da parte di testimoni oculari, i lati più intimi e umani di Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II. Curiosi retroscena, alcuni dal sapore allegramente aneddotico, su momenti della vita del Pontefice si mischiano così a passaggi cruciali che hanno fatto la storia del secolo scorso. Eccoli in ordine cronologico. L’invasione nazista e il seminario Karol Wojtyla nasce il 18 maggio 1920 a Wadowice. A soli 12 anni perde la madre e poco dopo anche il padre e il fratello. Si iscrive alla facoltà di Polonistica all’università Jaghellonica di Cracovia. Di quell’infanzia e giovinezza si racconta che «la solitudine che sperimentò dopo la morte del padre pose quel giovane così profondo di fronte all’esigenza di un rapporto personale con Dio». Molti degli amici descrivono la sua vita come «una vocazione all’amore della bellezza», altri insistono sulla sua necessità di «fare esperienza della bellezza». Quando il 1° settembre 1939 Hitler attaccò la Polonia, Wojtyla «accolse con dolore l’attacco. La perdita della libertà e l’attacco a tutto ciò che era polacco colpì dolorosamente il patriottismo, nel senso migliore della parola, del giovane Karol». Spesso parlava, «e si vedeva che ne soffriva veramente», delle tante persone che «avevano patito nei campi di concentramento o altrove, mentre egli era stato preservato da quel martirio di persecuzione. Per lui era come se la Provvidenza lo avesse protetto “al posto” di tanti altri innocenti, ed era come se si sentisse in debito verso quegli uomini». Wojtyla frequentava il seminario e lavorava nella fabbrica chimica Solvay. A tal proposito, alcuni ricordano che gli operai durante le ore di lavoro lo vedevano pregare e leggere molto i libri che si portava dietro di nascosto. «Esprimevano la loro simpatia e il loro affetto per quel giovane operaio risparmiandogli i lavori più pesanti per permettergli di studiare».
Chi invece frequentò il seminario con lui racconta: «Che cosa mi ha colpito allora di lui? Soprattutto la bontà. Era parco di parole, ascoltava più che parlare. A volte, discretamente, faceva le sue osservazioni. Aveva uno sguardo sereno, era spiritoso, osservava fedelmente il regolamento del seminario. Durante le lezioni era concentrato, prendeva appunti diligentemente e afferrava al volo il pensiero fondamentale del professore. Ho sempre letto senza fatica i suoi appunti. In ogni pagina del quaderno c’erano le iniziali di Gesù e della Vergine Santissima». Wojtyla era un ragazzo povero che il lavoro in fabbrica e l’occupazione militare costringevano spesso a digiunare. A questo proposito racconta un testimone: «Quando chiese di entrare nel seminario clandestino, il cardinale metropolita gli chiese come se la cavasse e a che ora si alzasse. Poi gli chiese di andargli a servire Messa prima o dopo il lavoro, a seconda dei turni. Dopo la Messa lo prendeva a colazione per nutrirlo un po’». Un seminarista ricorda: «Passava molto tempo in ginocchio e quasi non si staccava dalla recita del rosario. Lo aveva sempre con sé. Faceva regolarmente la via crucis. Ho provato a imitarlo nella preghiera, ma non sono mai riuscito a raggiungere la sua concentrazione e la sua devozione». Un altro ricorda: «La sua ordinazione si svolse in anticipo, dopo appena due anni di seminario, poiché l’ordinario era profondamente convinto che il seminarista Wojtyla era maturo. Aveva una santità autentica».
Il 1° novembre 1946 Wojtyla fu ordinato sacerdote. Aggregò subito attorno a sé un gruppo di giovani – si chiamavano la “famigliola”– che per preservarne l’incolumità dalle autorità comuniste lo chiamavano “Zio”. In tempi in cui era vietata la pastorale universitaria «il suo modello di pastorale erano i colloqui personali. Univa tutto il proprio lavoro scientifico alla pastorale per i giovani. Era antropologicamente strutturato per questo»; «Era una pastorale universitaria individuale »; «Avevamo un sacerdote con noi nel quotidiano». Tutte le testimonianze concordano nel definirlo una personalità “nuova”: «Aveva tempo per ciascuno. A volte si creava una situazione particolare, in cui cinquanta persone erano convinte, ognuna per conto suo, di essere la persona che egli privilegiava».
«Era magnetico. Vedevamo in lui il sacerdote dei nostri ideali giovanili, vale a dire il sacerdote che ha tempo, confessa, prega molto e in un certo modo». «Poneva delle domande che ci scavavano dentro». Alcune testimonianze si soffermano sulla sua attenzione educativa: «Ci preparò al matrimonio in modo assolutamente fuori del comune». Altri sulla sua attenzione ai più bisognosi: «Ha aiutato gli studenti per tutta la vita»; «Distribuiva quel che riceveva: calzettoni, giacche, il cappotto. Una volta venne da noi e disse: “Venite, aiutatemi a comprare un cappotto”. Lo aiutammo. Poi diede il cappotto a qualcuno». Si rammentano i momenti di vita comunitaria: «Allo Zio piaceva molto cantare». In particolare il momento della “gita”: «Quando la mattina partivamo per una gita, cominciavamo con la Messa mattutina della domenica. Per strada il clima era molto allegro, c’era sempre la possibilità di fare un pezzo di strada assieme allo Zio e di parlare con lui di cose personali o riguardanti la concezionedella vita. Una cosa caratteristica era che egli era uno di noi, cioè condivideva le nostre vicissitudini, stava con noi, mangiava e cantava con noi. Fisicamente era molto forte; mi ricordo che una volta gli misero una pietra nello zaino perché non riuscivano a tenere il suo passo».
Il 28 settembre 1958 fu nominato vescovo ausiliare. Ricorda un testimone: «La nomina lo sorprese durante una gita in kajak. Non disse perché doveva andare a Varsavia. Disse soltanto che era stato chiamato dal Primate. Fece il viaggio in autostop, su un trattore. Arrivò alla ferrovia e giunse a Varsavia in treno». Il 13 gennaio 1964 divenne arcivescovo di Cracovia. Il 26 giugno 1967 fu nominato
cardinale. La fulminea carriera non ne cambiò le abitudini: «Non voleva che fossero cambiati neppure i pantaloni bucati. Bisognava rammendarli per molto tempo. Aveva a malapena un cambio. Andava a sciare con dei vestiti fuori moda. Non permetteva che se ne comprassero di nuovi. Aveva solo qualche camicia. Durante una vacanza prese con sé le camicie e, poiché faceva caldo, tagliò le maniche. Quando arrivò l’inverno non aveva più camicie con le maniche lunghe, come mi fece osservare la donna delle pulizie. Le dissi: “Vado a comprargli le camicie nuove con le maniche lunghe”. “Non è così semplice – mi rispose la signora – il cardinale le cose nuove non le porta, ma le regala”. Comprammo le camicie, poi le sporcammo e lavammo diverse volte affinché sembrassero vecchie e usate. Le indossò solo perché credeva di averle già portate». Un altro narra: «L’ho visto cambiare un’automobile americana, una Ford, con una Wolga. Non sopportava di avere una macchina migliore. Sapeva che c’era bisogno di soldi. Offriva delle ricche borse di studio ai dipendenti della curia». Aveva solo un vezzo: «A una sola cosa teneva molto: il suo pennello da barba». Altri rammentano che «l’arcivescovado di Cracovia era una casa aperta» e che «la sua prima colazione era sempre affollata di gente. Era un’occasione di conversazione».
Per quel che riguarda la sua idea di Chiesa: «Si trattava di comprendere la Chiesa attraverso la partecipazione. Wojtyla si espresse in questo modo: bisogna andare incontro all’uomo e allo stesso tempo non si può non camminare con gli uomini». Di qui l’impegno su tutti gli ambiti della vita. La preparazione dei sacerdoti («Gli stava a cuore soprattutto che il seminario fosse un ambito educativo»). Le parrocchie («La catechesi doveva essere il primo compito che i sacerdoti dovevano avvertire in coscienza. In una situazione in cui l’insegnamento della religione era stato abolito dalle scuole». «Dopo alcuni anni la maggior parte delle parrocchie aveva i suoi centri di catechesi. Questi centri salvarono la Chiesa in Polonia»). L’edificazione di nuove chiese («Si impegnò per costruirne di nuove, coinvolgendo i laici in modo che il lavoro fosse educativo e che ciascuno si sentisse coinvolto nella responsabilità. Fu un lavoro di duro scontro con il potere comunista che negava sistematicamente i permessi. In particolare per la costruzione della chiesa di Nowa Huta, la prima città atea della Polonia»).
Il rapporto con gli intellettuali («Si occupava dell’intellighentsia. Gli stava a cuore legare i laici, in particolare gli intellettuali poiché il potere voleva allontanarli»). Il nuovo modo di rapportarsi coi credenti laici («Una novità della sua pastorale è rappresentata dal suo rapporto con loro; dall’apertura ad una realtà che fino a quel momento non rientrava nella concezione della Chiesa »). I giovani, i suoi preferiti («Quando c’erano gli incontri non guardava l’orologio, non diceva che bisognava tornare a casa, rimaneva con loro senza interromperli»). Alcuni testimoni raccontano dei suoi rapporti con il cardinale Stefan Wyszynski: «Era umile. Desiderava che il primate fosse sempre in primo piano». Il regime comunista tentò a più riprese di mettere pubblicamente contro Wojtyla e Wyszynski. Tuttavia, dice una fonte, «più volte e in diverse occasioni ho sentito dire come il cardinal Wyszynski stimasse l’arcivescovo poi cardinal Wojtyla. Lo riteneva il proprio successore naturale. Quando ero studente l’ho sentito dire nel collegio polacco: “Me ne potrò andare tranquillo perché la Chiesa polacca rimarrà nelle mani sicure del cardinal Karol Wojtyla”».
Wojtyla mantenne sempre certi sbalorditivi atteggiamenti: «Doveva dire Messa a San Floriano. Però non arrivava in chiesa. Quando il sagrestano andò a dirgli che la gente stava aspettando, ammise di non poter entrare in chiesa perché era senza scarpe. Chiese al sagrestano di prestargli le sue. La sera prima aveva regalato le sue scarpe a uno studente povero». Tutti concordano nel ricordare la sua perenne attenzione ai più bisognosi – un uomo rammenta quando gli mise a disposizione l’automobile per andare a far visita al figlio ricoverato in ospedale – altri gli aiuti per combattere la povertà («la curia mi mandava sempre un pacco») o per farsi una vita («Quando cominciai a costruirmi la casa mi disse che mi avrebbe dato un “mattoncino”. Con quei soldi comprai i termosifoni, installai in casa il riscaldamento centrale. Ne fu molto felice»).
Sebbene il tempo da dedicare ai suoi giovani fosse diminuito non voleva rinunciare a trascorrere dei momenti con loro. Nella narrazione che segue c’è anche un interessante spunto per comprendere come si rapportava con le autorità comuniste: «Le vacanze furono ridotte a una settimana, soprattutto quelle in kajak. Portavamo tre grandi borse: in una c’era il necessario per celebrare la Messa e l’altare. Nella seconda, quella che noi preferivamo, c’era il cibo preparato per il vescovo dalla suore. Nella terza c’erano dei libri. La mattina mi alzavo presto e potevo vedere lo Zio già in acqua a nuotare. Nuotava benissimo. Poi diceva il breviario e leggeva qualche libro. Non perdeva un minuto. Durante la gita ogni due o tre giorni c’era un giorno senza navigazione che si passava al bivacco. In quel caso lo Zio leggeva, leggeva, e ancora leggeva e parlava con noi. Parlando delle autorità distingueva il sistema dagli uomini. Non criticava le persone concrete, ma parlava in generale delle autorità. Non lanciava accuse o invettive. Neppure quando gli chiedevamo provocatoriamente: “Zio, hai dato la mano a quel segretario?”. Rispondeva: “A chi mai io non do la mano?”»
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