Il cammino della fede cristiana è un percorso di edificazione della propria umanità, alla scoperta del proprio io autentico e profondo. Una delle tragedie dell’esistenza umana è quella di credersi condannati a un certo modo di essere, inchiodati agli aspetti negativi della propria personalità e dei propri tratti caratteriali senza possibilità di un riscatto, di un’evoluzione.
Certamente ognuno di noi subisce di condizionamenti e patisce quei limiti soggettivi che possono ostacolare e contaminare le relazioni: il temperamento, la storia, quello che ereditiamo dai genitori. Il cristianesimo crede che Dio ci ami così come siano, ma ci veda anche come potremmo essere e ci chiami a rivestire l’uomo nuovo nella giustizia e nella santità (cfr. Ef 4,24).
È un itinerario di fiducia e di lotta interiore: credere che possiamo essere migliori, imparare a essere amati e ad amare di più, conoscere l’uomo Gesù e seguire la sua strada. È lo sguardo che ha su di noi Dio, il quale ci dona il suo Spirito per raggiungere questa pienezza. Tutti questi temi sono presenti nel capitolo 4 dellaLettera agli Efesini, in cui si narra di un Dio che è padre di tutti e si fa presente in tutti (cfr. v. 6). In Cristo ha donato il suo spirito perché raggiungessimo il culmine dell’umanità, crescendo nella sua conoscenza e nella carità (cfr. 4,13.16).
L’autore mette in guardia dal diventare come coloro che hanno per la mente pensieri vuoti (4,17). Sono coloro che non hanno un centro di gravità, la cui esistenza è dispersa, senza unità. La loro mente è capricciosa e vagabonda, come dice Buddha nel Dhammapada: in balia delle emozioni momentanee, vivono senza un orientamento.
C’è, in questo cammino, un passaggio a cui l’autore sembra attribuire una particolare importanza. Da subito, infatti, raccomanda l’umiltà e la dolcezza (cfr. 4,1), mentre associa la condotta dell’uomo vecchio da abbandonare all’ira. Quest’ultima è invece associata al peccato e se l’uomo vi persiste, fino a lasciare che il sole tramonti su di essa, da così spazio al diavolo (cfr. 4,26-27). È l’ira che mette in bocca parole cattive. Il testo ha un’insistenza particolare su questo aspetto:
Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a noi in Cristo (4,31-32).
L’ira è un pensiero malvagio particolarmente diffuso nella nostra società, segnata da relazioni conflittuali e da un individualismo aggressivo. È un fuoco che distrugge, un vero e proprio veleno che i padri della chiesa chiamavano “vino dei draghi”. Contagia i nostri rapporti con le persone, provocando ferite personali e sociali. Lo si avverte a partire da una comunicazione, sia privata sia pubblica, che assume facilmente toni violenti, dove non c’è tensione verso il bene, ma prevalgono pulsioni distruttrici.
Anche Gesù andava in collera. Nei confronti del male, però, mai contro qualcuno. Egli era anzi l’uomo mite e umile di cuore, capace di praticare sulla croce quell’amore per i nemici che aveva insegnato.
Uno dei tratti distintivi dell’autentica vita spirituale, allora, è il paziente lavoro per spegnere il fuoco dell’ira, per fare spazio dentro di noi alla mitezza di Gesù.
Tutto ciò ha delle implicazioni ben precise anche sulla vita della chiesa. Oggi, come al tempo degli apostoli, al suo interno ci sono divisioni, lotte di potere, rivalità, dispute. Ecco perché la lettera esorta a conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace (4,3). Vuol dire essere un solo corpo e un solo spirito, o, per usare il linguaggio degli Atti degli apostoli, un cuore solo e un’anima sola (At 4,32).
Ma che cosa significa? Bisogna essere intelligenti, per non leggere queste parole secondo il metro dell’ipocrisia religiosa che si annida in certi ambienti ecclesiali. Questo atteggiamento copre con un velo i conflitti e le divergenze, finge di non vederli perché danno una cattiva immagine e li lascia ristagnare. Un’altra falsa soluzione è quella d’imboccare la via più facile assecondando chi è più aggressivo e alza la voce, oppure premiando il conformismo acritico e opportunista.
Non è la prospettiva della Lettera agli Efesini.
Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero per edificare il corpo di Cristo (4,11-12).
La chiesa è mostrata come un corpo ben compaginato e connesso, che cresce secondo l’energia propria di ogni membro e con la collaborazione di ogni giuntura, crescendo in modo da edificare se stesso nella carità (cfr. 4,16).
È l’immagine di una chiesa plurale, sinodale, ministeriale, dove l’unità è data dall’avere il Cristo come unico capo e riferimento finale.
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