"Rorate caeli"
Capolavori di canto gregoriano / "Rorate caeli"
È l'introito di domani, quarta domenica di Avvento. In una nuovissima esecuzione offerta al nostro ascolto dai "Cantori Gregoriani" e dal loro Maestro
di Fulvio Rampi
TRADUZIONE
Stillate o cieli dall’alto
e le nubi piovano il Giusto:
si apra la terra
e germogli il Salvatore.
I cieli narrano la gloria di Dio
e l'opera delle sue mani annuncia il firmamento.
Stillate...
(Isaia 45, 8 / Salmo 18, 1)
ASCOLTO
GUIDA ALL'ASCOLTO
La quarta domenica di Avvento era segnata, negli antichi libri liturgici romani, come domenica che "vacat”, che manca, perché la vigilia, iniziata la sera precedente, si concludeva all’alba con la messa, che sostituiva l’ufficio liturgico domenicale.
È solo a partire dal secolo VIII, quando i riti della vigilia furono anticipati al sabato mattina, che la domenica fu dotata di messa propria.
Tale anomalia nasceva dal fatto che la terza settimana di Avvento coincideva con le “tempora" d’inverno, ossia con una delle cosiddette quattro "tempora”, corrispondenti al mercoledì, venerdì e sabato d'inizio di ciascuna delle quattro stagioni. In questi giorni, caratterizzati dalla preghiera e dal digiuno, si tenevano le ordinazioni dei vescovi, dei preti e dei diaconi.
Soppresse nell’attuale liturgia, le quattro "tempora” erano una viva testimonianza di attaccamento alla terra, espresso con uno spiccato carattere di solennità rurale: una sorta di festa delle stagioni, per attirare sui frutti della terra le benedizioni di Dio e per ringraziarlo del raccolto. La liturgia delle quattro "tempora” si faceva simbolo di tale ricchezza di doni, modificando la sua consueta struttura con l’aggiunta il mercoledì di una lettura con il corrispondente canto graduale e con ben sette letture in più, intercalate da graduali, inni e "tractus", nella celebrazione del sabato.
La nostra quarta domenica di Avvento risultava così messa un po’ in ombra da questa settimana di ringraziamento solenne e speciale. Da domenica "vacante" è poi diventata ultima domenica di questo tempo liturgico, ma senza la dotazione di nuovi testi per i canti del proprio. Questi, infatti, vennero ripresi dalla messa del mercoledì precedente e adattati alla liturgia domenicale.
La messa della "feria IV", il mercoledì, appunto, delle "tempora" di Avvento era detta, in epoca medievale, “missa aurea beatae Mariae” perché era d'intonazione spiccatamente mariana e in essa si faceva memoria della profezia di Isaia sulla vergine che concepisce e dà alla luce l’Emmanuele, il Dio-con-noi.
Ritroviamo pertanto anche oggi, nei canti propri di questa messa, una evidente impronta mariana, in particolare nell’offertorio “Ave Maria” e nel communio “Ecce virgo concipiet”.
L’introito “Rorate caeli”, dal canto suo, pur costituendo parte integrante e “titolo” di questa messa, merita qualche altra osservazione.
Il testo di questo brano è la versione fedele di un versetto di Isaia. Contrariamente a quanto si è visto nella seconda domenica di Avvento nell’introito “Populus Sion”, in questo caso non è stata compiuta alcuna operazione sul testo biblico: non ci sono centonizzazioni, adattamenti o modifiche del testo, che si presenta esattamente come compare nella versione latina della Vulgata di Girolamo.
A ben vedere, però, due modifiche all’originale testo ebraico le ha apportate lo stesso Girolamo. Rispetto alle recenti traduzioni della Bibbia che si basano appunto sul testo originale in lingua ebraica, notiamo in Isaia 45, 8 due varianti importanti: “iustum”, il Giusto, ha preso il posto di “iustitiam”, la giustizia, e “Salvatorem”, il Salvatore, ha sostituito “salvationem”, la salvezza.
La traduzione in chiave cristologica di Girolamo, appare qui in tutta la sua evidenza e in tutta la sua forza espressiva. I concetti di giustizia e di salvezza si incarnano nella persona del Giusto, del Salvatore. La profezia di Isaia si incarna nella figura di Cristo, che non a caso, nel mercoledì delle "tempora" invernali, diviene “frutto della terra” e dono delle nubi del cielo.
L’Avvento nella carne, mistero della incarnazione, viene qui celebrato in tutta la sua umanità ed è di conseguenza associato, negli altri canti della messa appena citati, alla figura della Vergine madre.
L’architettura sonora pensata dal canto gregoriano per il "Rorate" è sorprendente, già nella messa in musica di taluni incisi. Come “desuper”(dall’alto) si muove nelle tessiture più acute, così “pluant iustum” (piovano il Giusto) è realizzato in linea discendente attraverso una “pioggia” di note.
Allo stesso modo, nella frase conclusiva, la “terra” coincide con la zona più grave della costruzione melodica e determina, in rapporto alla struttura della prima frase, un chiaro timbro di “protus autentico”, quel primo modo da cui parte la classificazione modale dell’"octoechos" gregoriano.
Ma che questo introito sia ben fondato nel primo modo, è altresì dichiarato in modo ancor più netto ed inequivocabile soprattutto dall’incipit dell’intero brano.
L’imperativo “Rorate” è proclamato con una formula tipica del primo modo: una formula definita “di accento”, ma che, in realtà, non si limita a una semplice sottolineatura di una sillaba tonica. Si tratta, invece, di un vero e proprio timbro espressivo, dichiarato da subito e additato a vertice accentuativo di tutta la composizione e che, come tale, colora l’intero introito, condizionandone in modo univoco l’impianto modale.
All’imperativo “Rorate” viene dunque riconosciuto uno spessore retorico del tutto particolare: altra cosa, evidentemente, dall’imperativo apostolico di Paolo che è risuonato nell’introito della terza domenica di Avvento. Su quel “Gaudete”, infatti, l'accento non era definitivo, perché la vera meta accentuativa era posticipata al "semper" che chiude la prima semifrase: “Gaudete in Domino semper”, rallegratevi nel Signore sempre.
La forza espressiva del “Rorate” diviene simbolo di un’attesa che si fa sempre più trepidante e che la liturgia dell’Ufficio Divino degli ultimi giorni di Avvento riassume nelle celebri sette antifone al Magnificat dette “antifone O” dal loro incipit: “O Sapientia", "O Emmanuel", "O Adonai"...
L’antica monodia gregoriana, insomma, ci avverte con intensità crescente che il tempo della nostra salvezza è vicino e si fa voce della Chiesa che invoca la venuta del suo Signore.
*
Per saperne di più sulle "antifone O"...
Avvento in musica. Sette antifone tutte da riscoprire
Si cantano una al giorno, al Magnificat dei vespri. Sono molto antiche e ricchissime di riferimenti alle profezie del Messia. Le loro iniziali formano un acrostico. Eccole trascritte, con la chiave di lettura
di Sandro Magister
ROMA, 17 dicembre 2008 – Da oggi fino all'antivigilia di Natale, al Magnificat dei vespri di rito romano si cantano sette antifone, una per giorno, che cominciano tutte con un'invocazione a Gesù, pur mai chiamato per nome.
Questo settenario è molto antico, risale al tempo di papa Gregorio Magno, attorno al 600. Le antifone sono in latino e si ispirano a testi dell'Antico Testamento che annunciano il Messia.
All'inizio di ciascuna antifona, nell'ordine, Gesù è invocato come Sapienza, Signore, Germoglio, Chiave, Astro, Re, Emmanuele. Nell'originale latino: Sapientia, Adonai, Radix, Clavis, Oriens, Rex, Emmanuel.
Lette a partire dall'ultima, le iniziali latine di queste parole formano un acrostico: "Ero cras", cioè: "[Ci] sarò domani". Sono l'annuncio del Signore che viene. L'ultima antifona, che completa l'acrostico, si canta il 23 dicembre. E l'indomani, con i primi vespri, comincia la festività del Natale.
A trarre queste antifone fuori dall'oblio è stata, inaspettatamente, "La Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma che si stampa con il previo controllo della segreteria di stato vaticana.
Inusitato anche il posto d'onore dato all'articolo che illustra le sette antifone, scritto da padre Maurice Gilbert, direttore della sede di Gerusalemme del Pontificio Istituto Biblico. L'articolo apre il quaderno prenatalizio della rivista, dove di solito c'è l'editoriale.
Nell'articolo, padre Gilbert illustra ad una ad una le antifone. Ne mostra i ricchissimi riferimenti ai testi dell'Antico Testamento. E fa rimarcare una particolarità: le ultime tre antifone – quelle del "Ci sarò" dell'acrostico – comprendono alcune espressioni che si spiegano unicamente alla luce del Nuovo Testamento.
L'antifona "O Oriens" del 21 dicembre include un chiaro riferimento al cantico di Zaccaria nel capitolo primo del Vangelo di Luca, il "Benedictus": "Ci visiterà un sole che sorge dall'alto per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra di morte".
L'antifona "O Rex" del 22 dicembre include un passaggio dell'inno a Gesù del capitolo secondo della lettera di Paolo agli Efesini: "Colui che di due [cioè di ebrei e pagani] ha fatto una cosa sola".
L'antifona "O Emmanuel" del 23 dicembre si conclude infine con l'invocazione "Dominus Deus noster": un'invocazione esclusivamente cristiana poiché soltanto i seguaci di Gesù riconoscono nell'Emmanuele il loro Signore Dio.
Ecco dunque qui di seguito i testi integrali delle sette antifone, in latino e tradotte, con evidenziate le iniziali che formano l'acrostico "Ero cras" e con tra parentesi i principali riferimenti all'Antico e al Nuovo Testamento:
I – 17 dicembre
O SAPIENTIA, quae ex ore Altissimi prodiisti,
attingens a fine usque ad finem fortiter suaviterque disponens omnia:
veni ad docendum nos viam prudentiae.
O Sapienza, che uscisti dalla bocca dell’Altissimo (Siracide 24, 5),
ti estendi da un estremo all'altro estremo e tutto disponi con forza e dolcezza (Sapienza 8, 1):
vieni a insegnarci la via della saggezza (Proverbi 9, 6).
II – 18 dicembre
O ADONAI, dux domus Israel,
qui Moysi in igne flammae rubi apparuisti, et in Sina legem dedisti:
veni ad redimendum nos in brachio extenso.
O Signore ("Adonai" in Esodo 6, 2 Vulgata), guida della casa d’Israele,
che sei apparso a Mosè nel fuoco di fiamma del roveto (Esodo 3, 2) e sul monte Sinai gli hai dato la legge (Esodo 20):
vieni a redimerci con braccio potente (Esodo 15, 12-13).
III – 19 dicembre
O RADIX Iesse, qui stas in signum populorum,
super quem continebunt reges os suum, quem gentes deprecabuntur:
veni ad liberandum nos, iam noli tardare.
O Germoglio di Iesse, che ti innalzi come segno per i popoli (Isaia 11, 10),
tacciono davanti a te i re della terra (Isaia 52, 15) e le nazioni ti invocano:
vieni a liberarci, non tardare (Abacuc 2, 3).
IV – 20 dicembre
O CLAVIS David et sceptrum domus Israel,
qui aperis, et nemo claudit; claudis, et nemo aperit:
veni et educ vinctum de domo carceris, sedentem in tenebris et umbra mortis.
O Chiave di Davide (Isaia 22, 22) e scettro della casa d’Israele (Genesi 49. 10),
che apri e nessuno chiude; chiudi e nessuno apre:
vieni e strappa dal carcere l’uomo prigioniero, che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte (Salmo 107, 10.14).
V – 21 dicembre
O ORIENS, splendor lucis aeternae et sol iustitiae:
veni et illumina sedentem in tenebris et umbra mortis.
O Astro che sorgi (Zaccaria 3, 8; Geremia 23, 5), splendore della luce eterna (Sapienza 7, 26) e sole di giustizia (Malachia 3, 20):
vieni e illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte (Isaia 9, 1; Luca 1, 79).
VI – 22 dicembre
O REX gentium et desideratus earum,
lapis angularis qui facis utraque unum:
veni et salva hominem quem de limo formasti.
O Re delle genti (Geremia 10, 7) e da esse desiderato (Aggeo 2, 7),
pietra angolare (Isaia 28, 16) che fai dei due uno (Efesini 2, 14):
vieni, e salva l’uomo che hai formato dalla terra (Genesi 2, 7).
VII – 23 dicembre
O EMMANUEL, rex et legifer noster,
expectatio gentium et salvator earum:
veni ad salvandum nos, Dominus Deus noster.
O Emmanuele (Isaia 7, 14), re e legislatore nostro (Isaia 33, 22),
speranza e salvezza dei popoli (Genesi 49, 10; Giovanni 4, 42):
vieni a salvarci, o Signore nostro Dio (Isaia 37, 20).
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La rivista su cui è apparso l'articolo di padre Maurice Gilbert, "Le antifone maggiori dell'Avvento":
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POST SCRIPTUM – Domenica 21 dicembre anche Marina Corradi è intervenuta sulle sette antifone maggiori dell'ultima settimana di Avvento. Con questo editoriale su "Avvenire":
La promessa a noi vacillanti: "Ci sarò domani, e sempre"
di Marina Corradi
"Ero cras", "Ci sarò domani". Forse questa promessa in latino alla maggioranza dei credenti oggi non dice niente. Ma è una promessa molto antica, risalente ai tempi di Gregorio Magno, e nascosta tra le righe di sette antifone che tradizionalmente accompagnano, nell’ultima settimana di Avvento, il Magnificat ai vespri di rito romano. Un articolo su "La Civiltà Cattolica" del biblista padre Maurice Gilbert richiama dal passato la storia di questa promessa d’Avvento, a noi cristiani del Terzo millennio per lo più sconosciuta. Dunque il segreto delle "antifone maggiori", dette anche "antifone O", sta nella parola posta all’inizio di ciascuna di esse.
"O Sapientia", comincia la prima, e le successive: "O Adonai, O Radix, O Clavis, O Oriens, O Rex, O Emmanuel". Germoglio, Chiave, Re, Emmanuele: tutte le antifone iniziano con un’invocazione a Cristo. Ma capovolgendo l’ordine delle parole e prendendo di ciascuna la lettera iniziale, emerge l’acronimo "Ero cras", "Ci sarò domani". Non è enigmistica. Ogni antifona è una sintesi di passi dell’Antico e Nuovo Testamento, un concentrato di fede cristiana che gli antichi fedeli ripetevano nella penombra dei vespri dell’Avvento, quando la notte calata sulle brevi giornate d’inverno, rischiarato solo da candele, evocava un’altra ombra, che incuteva timore. Dalle buie sere che precedono il solstizio, dal colmo dell’oscurità, nelle chiese si invocava: Germoglio, Sapienza, Re, vieni a liberarci dalla tenebre. E nella quinta antifona, quella del 21 dicembre – giorno esatto del solstizio, in cui, toccato il vertice del buio, il sole comincia a risalire in cielo – si cantava: "O Oriens, splendor lucis aeternae et Sol Iustitiae: veni et illumina sedentem in tenebris et umbra mortis"; "O astro che sorgi, splendore di luce eterna e sole di giustizia: vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra della morte". E infine, nascosta nelle iniziali delle prime parole delle antifone: "Ero cras". Ci sarò domani, ci sarò sempre: nel fondo del buio, di generazione in generazione, il ripetersi di una promessa di luce.
Il segreto – almeno per noi profani – rivelato dal teologo gesuita commuove per la bellezza, la bellezza della forma della antica tradizione cristiana che troppo abbiamo dimenticato. Con quella aderenza profonda alla realtà concreta degli uomini; forse anche noi, in queste giornate così brevi e già alle quattro buie, non ci sentiamo addosso come un’ombra, e l’ansia che il sole si rialzi, che la luce della primavera torni e rassicuri? "Vieni, illumina le tenebre", chiedevano. "Ci sarò domani, ci sarò sempre", era la risposta già segretamente scritta nella domanda. E noi? ti viene da domandarti. L’attesa che colma questi antichi canti d’Avvento, ci appartiene ancora? O, sfumata la memoria di un male originario che ci opprime, non percepiamo più davvero il buio che nelle antifone del tempo di Gregorio Magno pare così incombente, tanto che è evidente come quei versi anelano la luce? Non più pienamente coscienti del buio, sappiamo ancora desiderare la luce? La nascita di Cristo, nel colmo dell’inverno, è il venire al mondo di colui che vince la morte. Ce ne ricordiamo pienamente, noi credenti del 2008, pressati negli ipermercati in cui infuria "Jingle bells", o angosciati dalla crisi e dal vacillare del nostro benessere? Che la promessa antica e segreta delle "antifone O", l’augurio, ci accompagni nel nostro affannarci della vigilia del Natale. "Ero cras", ci sarò domani e sempre. E grazie al dotto studioso che ha ricordato a noi credenti analfabeti un segreto tesoro, a illuminare questi giorni di buio.
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