Quel furto al salmo 31
L’agonia di Gesù sul Golgota e il mistero dell’ora meridiana.
(Rossina Virgili) L’ora del mezzogiorno è un’ora di incontri a sorpresa nel mondo della Bibbia. Capita di imbattersi con degli angeli a quell’ora (cf Genesi, 18, 1), oppure con degli uomini che parlano come dei profeti (cf Giovanni, 4, 6). L’ora più calda del giorno e l’ora più solitaria, specialmente nei Paesi del Vicino Oriente, quando il sole picchia così forte da indurre i più a restare in casa al fine di evitare degli effetti allucinanti sul cervello, o dei fenomeni di fata morgana.Il quadro che appare al lettore alla fine del pellegrinaggio sul luogo del Cranio, alla fine delle operazioni di crocifissione, alla fine di tutte le parole — che fossero di amore o di scherno — alla fine di ogni tentazione, nel grembo primordiale del silenzio e del vuoto, è davvero da visionari: nell’ora della massima luce, la terra tutta si copre di tenebre. Buio su tutta la terra. Un giro alla moviola del mito di creazione. Allora fu dal buio che emerse la luce, qui è il contrario: è la luce che partorisce le tenebre! Un autentico atto di de-creazione che ha il sapore delle cosmologie, del resto già annunciate con la menzione del paradiso. Il sole si nascose dietro la luna, perdendo il suo ordine a illuminare il giorno (cf Genesi, 14-16), creature caddero nel disordine e, quindi, ritornarono a Dio (cf Qoèlet, 12, 7). Tutto durò solo tre ore. Ma furono lunghissime. Le tre ore dell’agonia di un figlio. Come gli anni di male di Giobbe. Che lo costringeva contare i secondi per lunghi, lunghissimi giorni. Per giorni per notti interminabili e senza alcun minimo sostegno. Tre ore senza luce né lampada.
Quando per morire basterebbero tre minuti. Tempo di lotta che apre all’«Eccomi» di Gesù. Il tempo per imparare l’arte di Maria, la forte docilità della donna. «Padre, nelle tue mani rendo il mio spirito» (23, 46). Scegliendo tra i versetti del Salterio, il Gesù di Luca rinuncia al più maschile: «Perché mi hai abbandonato?» del Salmo 22 (cf Marco, 15, 34) per un più femminile «mi abbandono» rubato al salmo 31 (cf Luca, 23, 46). Un «mi consegno» di resa, un muliebre e perduto: total surrender. Il rischio di far penetrare l’immenso buio del Cielo nella carne cava e protesa. Fino alla perdita e la consegna agli abissi dell’assenza. Ferita di stelle.
Tre ore senza luce né lume. Senza la lampada del tempio. Senza la serena mediazione del culto, la fissità delle funzioni. Il suo velo squarciato e la luce del Santo dei santi che va in frantumi, che rivela il volto nudo e oscuro di Dio. Del Dio “ignoto” (cf Atti, 23) e del Cielo vuoto. Tutto ciò è esperienza interiore. Ciò che si vede in queste tre ore a occhio nudo è lo scempio di volti sfigurati, di membra che cercano di reagire contorcendosi, di polmoni che si arrendono alla troppa fatica che chiede a un crocifisso per respirare. Quello che si vede è la vergogna della politica, religiosa e civile, che ha scartato un cittadino, un uomo, un figlio e l’ha gettato via come un oggetto ripugnante. Quello che si vede è il fallimento della giustizia e la corruzione di coloro che ne sono esperti e garanti. Quello che si vede è l’arbitrio colpevole di uomini — per di più sacerdoti! — che si arrogano un potere che non hanno mai: quello di dare la morte a una creatura umana, foss’anche un criminale.
Non è possibile sapere cosa avesse visto il centurione nel modo di morire di Gesù, per definirlo “giusto”, cioè, ancora innocente (v. 47; Marco, 15, 39 = Matteo, 27, 54: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio»); quale rara luce di diritto dovesse illuminare quest’ultimo e unico giudizio giusto fatto su Gesù. Una corte d’appello che invalidava le sentenze corrotte di tutto il primo grado.
Gesù moriva semplicemente con un grido (versetto 46: fonè megàle). In esso l’eco del grido del “sangue di Abele” che erompeva, selvaggio, dalla terra a rivendicare la vita (Genesi, 4, 10); di Israele schiavo e ridotto a una larva, in Egitto, che chiedeva di rialzare la testa, di essere liberato (Esodo, 2, 23). Grida che il Cielo ascoltò. Il grido di Gesù fa eco e si include a quello di Elisabetta, quando ricevette la visita di Maria: il bambino nel suo grembo si mosse e la madre «gridò forte» (kraughè megàle, Luca, 1, 42). Un grido di gioia, di corrispondenza, di benedizione che Elisabetta lancia come una sfida alla croce e al grido del Figlio che muore di strazio e di solitudine. Se non ci fosse stato il grido anticipato di Elisabetta a chiamare la vita, forse quello di Gesù sulla croce non mai stato decodificato, e sarebbe restato soltanto un desolato lamento di morte.
Sulla via del ritorno le folle ripensavano a ciò che avevano visto (theorésantes). Il monte della croce è materia, ma anche rappresentazione. E su quest’ultima le folle si battono il petto, trovando in essa una via di conversione, una liturgia di pentimento.
Ultime a essere citate, mentre i riflettori si spengono sulle sagome dei crocifissi, sono le donne. Esse vedono queste cose (oròsai, versetto 49). Una visione che penetra la realtà della croce. Sono testimoni di quella. Mentre Maria meditava su ciò che accadeva al bambino (symbàllousa, Luca, 2, 19), esse “vedono” ciò che accade al loro Maestro. La scuola di sequela, iniziata in Galilea (cf versetto 49) era adesso arrivata alla “visione”. Le parole di sapienza, i gesti di misericordia che avevano imparato con la sequela (synakolouthoúsai, versetto 49), vengono rivelati alle donne alla luce della croce. È quanto manca agli apostoli! Luca è il vangelo delle folle, ma non delle masse anonime. Luca distingue e vede in ogni gruppo delle differenze. Non divide il mondo per categorie, ma per persone.
L'Osservatore Romano
Kairos
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