San Francesco e la sua rete social Kairòs
(Egidio Picucci) «Francesco ha inventato una rete ampia quanto il mondo, una vera e propria web, usando i suoi frati per raggiungere la gente del suo tempo. Essi divennero una cassa di risonanza moltiplicativa delle sue parole, affinché potessero ancora camminare tra la gente annunciando agli uomini la buona notizia e regalando loro il buon profumo della Parola di Dio». A scriverlo è padre Pietro Maranesi, cappuccino, specialista di studi francescani, commentando la Lettera a tutti i fedeli. La lettera fu scritta allorché Francesco, stanco e malato, non poteva più muoversi per annunciare la Parola di Dio, «fragrante quanto il pane e che va spezzata e distribuita a tutti». Secondo la rielaborazione delle prime agiografie, le parole ascoltate da Francesco dal crocifisso di San Damiano sono state il punto di partenza per quanto avrebbe scelto per sé e i suoi frati: vivere tra la gente da frati minori per annunciare il Vangelo. Tommaso da Celano, il primo biografo di Francesco, dopo aver narrato l’arrivo dei primi compagni del santo, fornisce interessanti informazioni per ricostruire i tre elementi tipici della predicazione minoritica, che sono: pace e penitenza da annunciare da “frati minori”; predicazione sottomessa e soggetta alla Chiesa quale garanzia della sua evangelicità; annuncio collegato alla povertà e alla preghiera.
Da buono psicologo, Francesco non vuole indisporre la gente invitando i frati «ad annunciare la punizione di Dio per i peccati commessi», ma chiede di anteporre l’annuncio e il conforto della pace, secondo quanto avrebbe scritto nel testamento: «Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: il Signore ti dia la pace». La penitenza sarebbe stata annunciata subito dopo come via necessaria per giungere alla pace mediante la conversione, cioè invertendo la direzione della propria esistenza, modellandola su quella di Cristo. L’augurio della pace sarebbe stato vero ed efficace «solo se i frati avessero testimoniato con la vita quanto avrebbero proclamato, cioè se avessero fatto esperienza di pace nelle avversità e nei fallimenti»; se avessero «interrotto il meccanismo di potere e di dominio che regnava nella società». Solo così la loro vita avrebbe provato che il Vangelo “vissuto” libera dalla violenza, instaurando la pace delle relazioni.
Per facilitare questo compito, i primi compagni di Francesco scelsero un sistema in sintonia con la propria minorità: bando a ogni ambizione di potere e a ogni “violenza sacra” nell’annuncio del Vangelo non solo tra i cristiani, ma anche tra gli infedeli, «tra i quali — si legge nella Regola non bollata — debbono comportarsi in due modi», cioè «non fare liti né dispute ed essere soggetti ad ogni creatura per amor di Dio, confessando di essere cristiani». Per annunciare pubblicamente il Vangelo ai tempi di Francesco occorreva un’autorizzazione della Santa Sede o del vescovo locale perché c’era chi faceva della predicazione un’arma contro la stessa Sede Apostolica. Francesco, che aveva scritto nella Regola di obbedire e riverire «il signor Papa Innocenzo e i suoi successori», si recò quindi a Roma e riuscì a farsi ricevere proprio da lui, ottenendo il permesso di «predicare a tutti la penitenza secondo quanto il Signore gli avrebbe ispirato». Era un privilegio, e bisognava impedire che i frati si inorgoglissero a scapito della loro minorità o se ne servissero contro qualche gerarchia locale. Corse quindi subito ai ripari proibendo viaggi a Roma per chiedere eventuali appoggi, consigliando un altro viaggio: «Dovunque i frati non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio». Egli non voleva che il diritto-dovere della predicazione si trasformasse in potere, avviando così i frati a rinunciare alla sottomissione agli ordinari locali, garanzia della purezza della loro predicazione.
Il terzo aspetto, relativo al rapporto tra vocazione e predicazione e tra questa e la vita contemplativa “davanti all’Altissimo”, Francesco lo affrontò con l’aiuto di Chiara e Silvestro, due contemplativi di provata esperienza, ai quali chiese di pregare perché il Signore lo illuminasse. La risposta fu che lui, «araldo del Signore, non era stato scelto a vivere soltanto per sé, ma per Colui che è morto per tutti, ben consapevole di essere stato inviato per guadagnare le anime che il diavolo tentava di rapire». Tuttavia quella scelta non escludeva la dimensione contemplativa, «com’è chiaramente attestato da due generi di opere prodotte da Francesco: le lettere e le preghiere contemplative». Se queste rivelano l’importanza e la qualità della sua relazione con il mistero di Dio, nonché una costante tensione spirituale verso il mistero di Dio quale forza della fatica missionaria di Francesco e dei suoi frati, le lettere svelano «con forza e chiarezza la sua passione per la predicazione che identifica con quella del Signore». Egli è convinto che quanti ne leggeranno il testo «avranno davanti agli occhi le parole del Signore e dello Spirito Santo». Per questo prega e scongiura «nella carità che è Dio e col desiderio di baciare i vostri piedi che queste e le altre parole del Signore nostro Gesù Cristo con umiltà e amore le dobbiate accogliere e mettere in opera e osservare. E tutti quelli che con benevolenza le accoglieranno, le comprenderanno e ne invieranno copie ad altri. Li benedica il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo».
In altre due lettere Francesco ripete ai frati di copiare e moltiplicare i suoi testi per farli conoscere e di predicarli a tutti, aprendo, con largo anticipo sui tempi, un’originalissima rete web capace di raggiungere un pubblico vasto quanto l’Italia del suo tempo. Chi avrebbe mai pensato che le minuscole celle di Greccio, di Fontecolombo e di altri piccoli conventi francescani sarebbero diventate gli scriptorium in cui gli “illetterati” frati minori avrebbero emulato i dotti amanuensi benedettini che, sotto la sorveglianza dell’armarius (il bibliotecario del monastero), si accecavano per decifrare e salvare capolavori la cui scomparsa avrebbe impoverito il mondo?
L'Osservatore Romano
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