Anche se le conclusioni, qui e là, possono risultare diverse. Ecco il motivo per cui quest’estate si parla tanto di nuove generazioni, di lavoro, di opportunità, di scenari: perché non se ne può fare a meno. Anche i più superficiali e i più egoisti — di solito le cose coincidono — sanno che il futuro marcia sulle gambe dei nostri ragazzi. Anche i più cinici tra noi sanno che l’Italia andrà avanti grazie a loro; o non andrà da nessuna parte.
Qualche immagine rincuora. È rassicurante cogliere la vitalità degli scout riuniti a San Rossore (se trovate qualcuno che li deride, sappiate di aver conosciuto un cretino). Sarà sorprendente notare l’entusiasmo dei convenuti al Meeting di Rimini (neppure le colpe gravi di alcuni loro leader riusciranno a spegnerlo). È bello vedere la grinta e la fantasia di molti, giovani e meno giovani, nei videodocumentari di Pappi Corsicato per Corriere.it («L’Italia che non ti aspetti»). Ma non usiamo la loro tenacia come nostro alibi.
I nuovi italiani non se la passano bene. Lo sanno gli interessati e le loro famiglie; lo confermano, implacabili, le statistiche (43,7% di disoccupazione giovanile nell’unica economia europea che non si muove). Lo ripetono a intervalli regolari, talvolta con una punta di compiacimento, i media internazionali. Il Wall Street Journal ieri titolava: «In Europa, la protezione della vecchia generazione è una barriera per i giovani lavoratori». Poi, nel pezzo, si legge quasi soltanto dell’Italia, con un’attenzione particolare a un fenomeno: i giovani che non lasciano la casa di famiglia, o sono costretti a ritornarci.
Dieci anni fa il 60% dei connazionali tra i 18 e i 34 anni viveva con i genitori, un record mondiale. Due anni fa la percentuale era salita al 64%. Eurostat non fornisce dati più aggiornati, ma è legittimo ritenere che le cose non siano migliorate: con milleduecento euro lordi al mese, quando ci sono, non si pagano affitto, spese di casa, vitto, trasporti e tutto il resto. Nessuno parla più di «mammoni», una festa di labiali che deliziava i forestieri, confortandoli nei loro stereotipi. Se oggi un trentaduenne resta in casa con i genitori è perché deve, non perché vuole (si spera).
D’estate queste convivenze si complicano, a causa di orari e abitudini (il figlio torna quando la mamma si alza, il papà pranza quando la figlia chiede la prima colazione). Oppure si spostano in vacanza, con conseguenze prevedibili e malinconiche. Il ritorno ai luoghi di villeggiatura dell’infanzia non è una scelta romantica, per molti nuovi italiani; è una necessità, prodotta dalla mancanza di alternative. La villetta al mare o l’appartamento in montagna erano l’investimento di mamma e papà, e il loro fantasticato buon ritiro. Sempre più spesso queste seconde case vengono condivise con figli, nipoti e amici al seguito. L’unica villeggiatura possibile: le altre costano troppo.
Non posso offrire prove né statistiche: non siamo neppure a Ferragosto. Solo osservazioni e sensazioni. Si moltiplicano — nelle auto e sulle spiagge, al ristorante e sui traghetti — le apparizioni di queste famiglie forzatamente allargate. Accampamenti allegri, perché non siamo gente triste. Amore e necessità, in Italia, fanno miracoli: molte di queste vacanze, sono certo, si riveleranno divertenti e serene. Ma si sente, nell’aria d’estate, odore di freni: è l’Italia che rallenta, e non ripartirà senza carburante e strada libera.
«Corriere della Sera» del 12 agosto 2014
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