La lezione di Francesco sul Potere
Il tweet di Papa Francesco: "Ci sono tanti bisognosi nel mondo d'oggi. Sono chiuso nelle mie cose, o mi accorgo di chi ha bisogno di aiuto?" (17 settembre 2013)
*
Bastonate apostoliche di Francesco all’antipolitica (e pure ai preti d’ufficio)
“Apri il giornale e bastonano, guardi la tv e bastonano. Sempre il male, sempre contro. C’è l’abitudine di dire solo male dei governanti e fare chiacchiere sulle cose che non vanno bene”. Troppo comodo, insomma, giudicare chi ci governa stando seduti in poltrona, salendo sui tetti, organizzando sit-in o riempiendo le piazze con bandiere e slogan di protesta più o meno volgari, senza “dare il nostro contributo”, limitandosi a dire “io non c’entro, sono loro che governano”. Il rapporto tra governante e governato è stato al centro dell’omelia pronunciata ieri mattina dal Papa, poco dopo l’alba, nella piccola cappella di Santa Marta. “Tante volte abbiamo sentito che un buon cattolico non si immischia in politica, ma questo non è vero”, ha aggiunto. “Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare”. Insomma, chi in questi anni fosse diventato sostenitore del patriota dannunziano Guido Keller che dopo l’impresa di Fiume gettò dal proprio aereo un pitale colmo di rape e carote su Montecitorio, farebbe bene a ripassare la dottrina sociale della chiesa cattolica, secondo la quale “la politica è una delle più alte forme della carità”. Il cittadino, dunque, “non può lavarsene le mani”, benché ormai “ci sia l’abitudine di pensare che dei governanti si deve solo chiacchierare, parlare male di loro e delle cose che non vanno bene”. Certo, la tentazione di dire che quel politico “è una cattiva persona che deve andare all’Inferno”, c’è e spesso è pure forte. Ma il cattolico deve pregare anche per il proprio governante (che deve essere umile e amare il suo popolo), “e non lo dico io, ma san Paolo”, ha precisato Bergoglio.
“Alla chiesa serve coraggiosa creatività”
Poco dopo, a bordo della Ford Focus blu, Francesco ha raggiunto San Giovanni in Laterano per l’incontro con il clero romano. Alla chiesa, ha detto rispondendo alle domande delle centinaia di sacerdoti presenti, “serve conversione pastorale e coraggiosa creatività”. Bisogna “cercare strade nuove”, far sì che la chiesa sia sempre più accogliente. Basta con quelli che “in parrocchia sono più preoccupati di chiedere soldi per un certificato che al Sacramento”, ha aggiunto. Così facendo, “si allontana la gente”. C’è necessità, invece, di più “accoglienza cordiale”, e il prete misericordioso deve essere il primo a farsene carico. Non è più tempo di sacerdoti “rigoristi e lassisti”, anzi, da loro bisogna guardarsi bene. Il prete deve sentire “la fatica del lavoro”, perché “la conversione si fa in strada, non in laboratorio”. Infine, ribadendo quanto già detto a bordo dell’aereo Rio-Roma lo scorso luglio, “la chiesa deve fare qualcosa per risolvere i problemi delle nullità matrimoniali. Ridurre la questione al divieto o meno di fare la comunione significa non comprendere il vero problema”. Al clero di Roma Francesco ripete quanto disse, cinque anni fa, ai sacerdoti di Buenos Aires. Non a caso, prima dell’incontro di ieri, ha voluto che il cardinale vicario Agostino Vallini distribuisse ai preti romani il testo da lui preparato in quella occasione. Poche pagine che riprendevano i punti salienti del documento che chiudeva la V Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Aparecida, e che aveva in Bergoglio il presidente del comitato di redazione. E’ lì, spiegava il futuro Papa, che si delinea la chiesa del futuro. In quei paragrafi si leggono i presupposti per la grande missione di nuova evangelizzazione da portare avanti nel Ventunesimo secolo. Un programma, disse lui stesso sei anni fa, che andava ben oltre i confini del Sudamerica.
M. Matzuzzi (Il Foglio)
*
di Franca D'Agostini
in “La Stampa” del 16 settembre 2013
Sembra ormai chiaro che il Papa sta dando una lezione: agli intellettuali, ai politici, alle gerarchie
ecclesiastiche. E la lezione è metodologica, prima che dottrinale: l'hanno sottolineato indirettamente
Gian Enrico Rusconi sulla Stampa (12/8) ed esplicitamente Vito Mancuso su Repubblica (13/8). La
dottrina che il Papa difende è infatti molto simile a quella del cardinale Martini, come è stato detto,
ma direi di più: non è lontana in fondo da ciò che è noto a qualunque fedele cattolico, non distratto
da questioni politiche contestuali (famiglia, aborto, evoluzione, omosessualità, ecc.). Mentre
l'insegnamento nuovo consiste piuttosto in quel che Francesco fa ed è.
Però occorre capire bene quale sia in definitiva questa lezione impartita per via metodologica Che
cosa, in sintesi, il Papa sta insegnando? L'ipotesi che vorrei suggerire è che Francesco sta dando una
lezione sul potere: che cosa è, come si esercita, quale è il suo scopo autentico. Tema di primario
interesse in un momento storico come questo, in cui si celebra, come dice Mosés Naïm La fine del
potere (Mondadori, 2013).
Va precisato che non è una lezione di strategia, ma di concettualità pura e semplice: che cosa è il
potere? perché esiste questa parola nella nostra lingua? e come possiamo mantenerci fedeli alle
ragioni per cui l'abbiamo creata? Nella sua lettera a Eugenio Scalfari c'è infatti una «spia» che credo
sia piuttosto importante, e che è passata, mi sembra, del tutto inosservata. È il punto in cui
Francesco scrive: «bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una
contrapposizione assoluta» (tra credenti e non credenti) occorre «reimpostare in profondità la
questione». Notate la doppia proposta intendersi sui termini, e andare in profondità. La prima parte
della lezione è dunque chiara se qualcuno si trova nella posizione di dover riflettere su un
disaccordo irriducibile, e se ha la possibilità (il potere) di comporlo, la prima cosa da fare è vedere
se non si tratta di un disaccordo verbale, di concetti, e parole; la seconda è andare alle origini,
vedere che cosa c'è sotto, perché se il confronto è onesto, «nel fondo» c'è la possibilità di accordo. È
una lezione semplicissima, ed è il metodo che comunemente si mette in opera in filosofia, che è
appunto lavoro sui concetti e sui cosiddetti «fondamenti». Dunque la prima parte della lezione ci
ricorda che se siamo in democrazia, esercitare il potere in casi di disaccordi irriducibili significa
«fare filosofia». D'altra parte il suo predecessore l'aveva già indicato. Uno dei requisiti portanti del
magistero di Ratzinger è stato «l'appropriazione della filosofia» (parole sue) da parte della Chiesa. È
peraltro la tesi che guida il lavoro della patristica (una parte della storia della teologia cristiana con
cui Ratzinger è particolarmente simpatetico), perché proprio questo fecero i Padri, impegnati a
chiarire e difendere il messaggio evangelico: si «appropriarono» del logos greco. La differenza
rispetto al Papa precedente sta nel fatto che Francesco non teorizza questa appropriazione, ma la
mette in opera, tanto è vero che la sua lettera a Scalfari è piena di «stipulazioni» concettuali
riguardanti i fondamenti. Di qui per esempio la scelta della definizione di verità come «relazione»,
definizione ben nota in filosofia, e tipicamente capace di catturare l'attenzione degli scettici.
La seconda parte della lezione riguarda direttamente l'idea di potere. Francesco dice che autorità è
l'«exousia», che vuol dire: proveniente dall'essere (ousia). Proprio perché proviene dall'essere,
scrive il Papa, l'autorità «si impone da sé», non ha bisogno di grande sforzo per esprimersi. Sul
piano filosofico e dottrinale può essere un'acquisizione che ha qualche antecedente, ma non conta:
anche in questo caso il genio di Francesco è stato farne non il contenuto ma lo stile del suo
magistero. Come sappiamo infatti Bergoglio ha compiuto una prima e fondamentale operazione:
rimanere se stesso, con le sue scarpe e le sue abitudini, lasciando che fosse il suo semplice essere a
essere autorevole.
Infine, la terza lezione è la più importante, e investe una definizione di potere che i filosofi tardomoderni della politica, educati da Machiavelli, Schmitt, Weber, non hanno mai seriamente preso in
considerazione. E la definizione è questa: il vero potere, il più alto, quello rispetto al quale tutti gli
Il tweet di Papa Francesco: "Ci sono tanti bisognosi nel mondo d'oggi. Sono chiuso nelle mie cose, o mi accorgo di chi ha bisogno di aiuto?" (17 settembre 2013)
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Bastonate apostoliche di Francesco all’antipolitica (e pure ai preti d’ufficio)
“Apri il giornale e bastonano, guardi la tv e bastonano. Sempre il male, sempre contro. C’è l’abitudine di dire solo male dei governanti e fare chiacchiere sulle cose che non vanno bene”. Troppo comodo, insomma, giudicare chi ci governa stando seduti in poltrona, salendo sui tetti, organizzando sit-in o riempiendo le piazze con bandiere e slogan di protesta più o meno volgari, senza “dare il nostro contributo”, limitandosi a dire “io non c’entro, sono loro che governano”. Il rapporto tra governante e governato è stato al centro dell’omelia pronunciata ieri mattina dal Papa, poco dopo l’alba, nella piccola cappella di Santa Marta. “Tante volte abbiamo sentito che un buon cattolico non si immischia in politica, ma questo non è vero”, ha aggiunto. “Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare”. Insomma, chi in questi anni fosse diventato sostenitore del patriota dannunziano Guido Keller che dopo l’impresa di Fiume gettò dal proprio aereo un pitale colmo di rape e carote su Montecitorio, farebbe bene a ripassare la dottrina sociale della chiesa cattolica, secondo la quale “la politica è una delle più alte forme della carità”. Il cittadino, dunque, “non può lavarsene le mani”, benché ormai “ci sia l’abitudine di pensare che dei governanti si deve solo chiacchierare, parlare male di loro e delle cose che non vanno bene”. Certo, la tentazione di dire che quel politico “è una cattiva persona che deve andare all’Inferno”, c’è e spesso è pure forte. Ma il cattolico deve pregare anche per il proprio governante (che deve essere umile e amare il suo popolo), “e non lo dico io, ma san Paolo”, ha precisato Bergoglio.
“Alla chiesa serve coraggiosa creatività”
Poco dopo, a bordo della Ford Focus blu, Francesco ha raggiunto San Giovanni in Laterano per l’incontro con il clero romano. Alla chiesa, ha detto rispondendo alle domande delle centinaia di sacerdoti presenti, “serve conversione pastorale e coraggiosa creatività”. Bisogna “cercare strade nuove”, far sì che la chiesa sia sempre più accogliente. Basta con quelli che “in parrocchia sono più preoccupati di chiedere soldi per un certificato che al Sacramento”, ha aggiunto. Così facendo, “si allontana la gente”. C’è necessità, invece, di più “accoglienza cordiale”, e il prete misericordioso deve essere il primo a farsene carico. Non è più tempo di sacerdoti “rigoristi e lassisti”, anzi, da loro bisogna guardarsi bene. Il prete deve sentire “la fatica del lavoro”, perché “la conversione si fa in strada, non in laboratorio”. Infine, ribadendo quanto già detto a bordo dell’aereo Rio-Roma lo scorso luglio, “la chiesa deve fare qualcosa per risolvere i problemi delle nullità matrimoniali. Ridurre la questione al divieto o meno di fare la comunione significa non comprendere il vero problema”. Al clero di Roma Francesco ripete quanto disse, cinque anni fa, ai sacerdoti di Buenos Aires. Non a caso, prima dell’incontro di ieri, ha voluto che il cardinale vicario Agostino Vallini distribuisse ai preti romani il testo da lui preparato in quella occasione. Poche pagine che riprendevano i punti salienti del documento che chiudeva la V Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Aparecida, e che aveva in Bergoglio il presidente del comitato di redazione. E’ lì, spiegava il futuro Papa, che si delinea la chiesa del futuro. In quei paragrafi si leggono i presupposti per la grande missione di nuova evangelizzazione da portare avanti nel Ventunesimo secolo. Un programma, disse lui stesso sei anni fa, che andava ben oltre i confini del Sudamerica.
M. Matzuzzi (Il Foglio)
*
di Franca D'Agostini
in “La Stampa” del 16 settembre 2013
Sembra ormai chiaro che il Papa sta dando una lezione: agli intellettuali, ai politici, alle gerarchie
ecclesiastiche. E la lezione è metodologica, prima che dottrinale: l'hanno sottolineato indirettamente
Gian Enrico Rusconi sulla Stampa (12/8) ed esplicitamente Vito Mancuso su Repubblica (13/8). La
dottrina che il Papa difende è infatti molto simile a quella del cardinale Martini, come è stato detto,
ma direi di più: non è lontana in fondo da ciò che è noto a qualunque fedele cattolico, non distratto
da questioni politiche contestuali (famiglia, aborto, evoluzione, omosessualità, ecc.). Mentre
l'insegnamento nuovo consiste piuttosto in quel che Francesco fa ed è.
Però occorre capire bene quale sia in definitiva questa lezione impartita per via metodologica Che
cosa, in sintesi, il Papa sta insegnando? L'ipotesi che vorrei suggerire è che Francesco sta dando una
lezione sul potere: che cosa è, come si esercita, quale è il suo scopo autentico. Tema di primario
interesse in un momento storico come questo, in cui si celebra, come dice Mosés Naïm La fine del
potere (Mondadori, 2013).
Va precisato che non è una lezione di strategia, ma di concettualità pura e semplice: che cosa è il
potere? perché esiste questa parola nella nostra lingua? e come possiamo mantenerci fedeli alle
ragioni per cui l'abbiamo creata? Nella sua lettera a Eugenio Scalfari c'è infatti una «spia» che credo
sia piuttosto importante, e che è passata, mi sembra, del tutto inosservata. È il punto in cui
Francesco scrive: «bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una
contrapposizione assoluta» (tra credenti e non credenti) occorre «reimpostare in profondità la
questione». Notate la doppia proposta intendersi sui termini, e andare in profondità. La prima parte
della lezione è dunque chiara se qualcuno si trova nella posizione di dover riflettere su un
disaccordo irriducibile, e se ha la possibilità (il potere) di comporlo, la prima cosa da fare è vedere
se non si tratta di un disaccordo verbale, di concetti, e parole; la seconda è andare alle origini,
vedere che cosa c'è sotto, perché se il confronto è onesto, «nel fondo» c'è la possibilità di accordo. È
una lezione semplicissima, ed è il metodo che comunemente si mette in opera in filosofia, che è
appunto lavoro sui concetti e sui cosiddetti «fondamenti». Dunque la prima parte della lezione ci
ricorda che se siamo in democrazia, esercitare il potere in casi di disaccordi irriducibili significa
«fare filosofia». D'altra parte il suo predecessore l'aveva già indicato. Uno dei requisiti portanti del
magistero di Ratzinger è stato «l'appropriazione della filosofia» (parole sue) da parte della Chiesa. È
peraltro la tesi che guida il lavoro della patristica (una parte della storia della teologia cristiana con
cui Ratzinger è particolarmente simpatetico), perché proprio questo fecero i Padri, impegnati a
chiarire e difendere il messaggio evangelico: si «appropriarono» del logos greco. La differenza
rispetto al Papa precedente sta nel fatto che Francesco non teorizza questa appropriazione, ma la
mette in opera, tanto è vero che la sua lettera a Scalfari è piena di «stipulazioni» concettuali
riguardanti i fondamenti. Di qui per esempio la scelta della definizione di verità come «relazione»,
definizione ben nota in filosofia, e tipicamente capace di catturare l'attenzione degli scettici.
La seconda parte della lezione riguarda direttamente l'idea di potere. Francesco dice che autorità è
l'«exousia», che vuol dire: proveniente dall'essere (ousia). Proprio perché proviene dall'essere,
scrive il Papa, l'autorità «si impone da sé», non ha bisogno di grande sforzo per esprimersi. Sul
piano filosofico e dottrinale può essere un'acquisizione che ha qualche antecedente, ma non conta:
anche in questo caso il genio di Francesco è stato farne non il contenuto ma lo stile del suo
magistero. Come sappiamo infatti Bergoglio ha compiuto una prima e fondamentale operazione:
rimanere se stesso, con le sue scarpe e le sue abitudini, lasciando che fosse il suo semplice essere a
essere autorevole.
Infine, la terza lezione è la più importante, e investe una definizione di potere che i filosofi tardomoderni della politica, educati da Machiavelli, Schmitt, Weber, non hanno mai seriamente preso in
considerazione. E la definizione è questa: il vero potere, il più alto, quello rispetto al quale tutti gli
Papa Francesco: "Chi governa sia umile”
di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 17 settembre 2013
Chi governa deve avere come caratteristiche «umiltà e amore per il popolo». E il buon cattolico
deve «immischiarsi» in politica. Lo ha detto ieri mattina Papa Francesco nell’omelia della messa
celebrata a Santa Marta, commentando il Vangelo del centurione che chiede con umiltà la
guarigione del servo, e la lettera di San Paolo a Timoteo con l’invito a pregare per i governanti.
Brani che sono serviti a Bergoglio per spiegare il «servizio dell’autorità».
Chi governa, ha detto Francesco, «deve amare il suo popolo», perché «un governante che non ama,
non può governare: al massimo potrà disciplinare, mettere un po’ di ordine, ma non governare».
«Non si può governare senza amore al popolo e senza umiltà! - ha spiegato il Papa - E ogni uomo,
ogni donna che deve prendere possesso di un servizio di governo, deve farsi queste due domande:
“Io amo il mio popolo, per servirlo meglio? Sono umile e sento tutti gli altri, le diverse opinioni, per
scegliere la migliore strada?”. Se non si fa queste domande il suo governo non sarà buono. Il
governante, uomo o donna, che ama il suo popolo è un uomo o una donna umile». Parole distanti
mille miglia da una politica caratterizzata da tatticismi, lotta per il mantenimento del potere o
interessi personali. Parole che mettono nuovamente al centro il «bene comune».
Ma Bergoglio, riecheggiando San Paolo che invita i cittadini ad elevare preghiere «per tutti quelli
che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla», ha ricordato che non ci
si può disinteressare della politica. «Nessuno di noi può dire: “Ma io non c’entro in questo, loro
governano”. No, no, io sono responsabile del loro governo e devo fare il meglio perché loro
governino bene e devo fare il meglio partecipando nella politica come io posso. La politica dice la
Dottrina Sociale della Chiesa - è una delle forme più alte della carità, perché è servire il bene
comune. Io non posso lavarmi le mani, eh? Tutti dobbiamo dare qualcosa!».
Francesco ha quindi osservato come sia invalsa l’abitudine di dire soltanto male dei governanti,
lamentandosi per le «cose che non vanno bene». «Tu senti il servizio della Tv e bastonano,
bastonano; tu leggi il giornale e bastonano. Sempre il male, sempre contro!». Forse - ha proseguito
il Pontefice - «il governante, sì, è un peccatore, come Davide lo era, ma io devo collaborare con la
mia opinione, con la mia parola, anche con la mia correzione» perché tutti «dobbiamo partecipare al
bene comune!». E se «tante volte abbiamo sentito dire: “Un buon cattolico non si immischia in
politica” - ha aggiunto - questo non è vero, quella non è una buona strada».
«Un buon cattolico - ha precisato Bergoglio - si immischia in politica, offrendo il meglio di sé,
perché il governante possa governare. Ma qual è la cosa migliore che noi possiamo offrire ai
governanti? La preghiera!». Pertanto, ha concluso Francesco, «diamo il meglio di noi, idee,
suggerimenti, il meglio, ma soprattutto il meglio è la preghiera. Preghiamo per i governanti, perché
ci governino bene, perché portino la nostra patria, la nostra nazione avanti e anche il mondo, che ci
sia la pace e il bene comune».
Così come aveva fatto in occasione del drammatico appello per la pace in Siria, richiamando
all’impegno di tutti nella preghiera e nel gesto concreto del digiuno, Francesco invita dunque a una
responsabilità simile verso la politica, chiedendo che si preghi per chi ha responsabilità di governo.
Ma chiedendo allo stesso tempo ai governanti umiltà e amore per il popolo.
*
L’invito di Papa Francesco ai cattolici “Immischiatevi in politica, date il meglio”
di Marco Ansaldo
in “la Repubblica” del 17 settembre 2013
«I cittadini non possono disinteressarsi della politica». E, soprattutto, «un buon cattolico si
immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare». Sono stati
finora rari gli accenni del nuovo Papa al mondo della politica. Solo qualche tempo dopo la sua
elezione, ad esempio, Francesco aveva detto che lo spazio dei rapporti fra la Chiesa e l’ambiente
politico italiano sarebbero tornati ad essere gestiti dalla Cei, togliendoli così di fatto dalle mani della
Segreteria di Stato, chiamata ora a operare più con l’estero.
Ieri Jorge Mario Bergoglio ha affrontato di nuovo l’argomento, nell’omelia di prima mattina
pronunciata in Vaticano nella Casa Santa Marta, ma mettendosi dalla parte dei fedeli. «Nessuno di
noi può dire “ma io non c'entro in questo, loro governano...”. No, io sono responsabile del loro
governo e devo fare il meglio perché loro governino bene e devo fare il meglio partecipando nella
politica come posso. La politica – ha spiegato il Pontefice argentino, richiamandosi alla dottrina
sociale della Chiesa - è una delle forme più alte della carità, perché è servire il bene comune. Io non
posso lavarmi le mani, tutti dobbiamo dare qualcosa. C’è l'abitudine di dire solo male dei
governanti e fare chiacchiere sulle cose che non vanno bene: senti il servizio della tv e bastonano,
bastonano; leggi il giornale e bastonano ».
Ha osservato allora Francesco: «Se tante volte abbiamo sentito dire che “un buon cattolico non si
immischia in politica”, questo non è vero, quella non è una buona strada». Dunque, ha concluso il
Pontefice, «diamo il meglio di noi, idee, suggerimenti, ma soprattutto la preghiera: preghiamo per i
governanti, perché ci governino bene, perché portino la nostra patria, la nostra nazione avanti e
anche il mondo».
In mattinata, nella basilica di San Giovanni in Laterano, di fronte al clero di Roma il Papa ha poi
affrontato un tema di forte impatto: le coppie di conviventi, i divorziati risposati in seconde nozze, i
matrimoni annullati dalla Chiesa. Non ha annunciato rivoluzioni dottrinali. Ha invitato però i
sacerdoti ad avere un atteggiamento di «accoglienza» nei confronti dei fedeli in difficoltà, pur nella
«verità» del Vangelo. Una questione, quella dei divorziati risposati, che interessa una larga fetta di
persone, tanto i cattolici quanto i laici. E Francesco, dando il segno di cogliere bene l’importanza
dell’argomento, ha annunciato che il tema verrà addirittura trattato nella riunione degli otto
cardinali suoi consiglieri dal 1 al 3 ottobre, e nel prossimo Sinodo dei vescovi.
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