sabato 11 giugno 2016

TEMPO!

Riflessioni sul tempo

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Sabato, pomeriggio indefinito e sonnacchioso. Per me dalle 13 alle 15 non è mattina e non è pomeriggio… è un “cuscinetto”, uno spazio alieno, un tempo indefinito. Soprattutto oggi che minaccia pioggia senza scaraventare tempeste sul mondo. Tempo sospeso, come le mie gocce. Nel silenzio e col gatto che vuole dormire. Sul comodino alcune pagine stampate. Alcuni pensieri sul tempo: valore che abbiamo perso e che dobbiamo riconquistare oppure entita astratta, eppure cosi concreta con peso e valore cosi variabile.

A voi.

Se ci fermiamo un attimo a riflettere su quale sia il gesto che, durante una nostra comune giornata, ripetiamo il maggior numero di volte, riconosceremo presto che si tratta del gesto di guardare l’orologio. Un gesto così scontato, ormai istintivo, che quasi come una funzione fisiologica accompagna la nostra esistenza, che ci appare impossibile immaginare una vita senza orologio. Il tempo, pensiamo giustamente, è il giudice supremo ed impietoso della nostra vita: come potremmo vivere senza misurarlo, senza tenerlo costantemente sotto controllo? E quale strumento migliore che i nostri orologi sempre più precisi e sofisticati? (…)

L’orologio a polvere ci riconduce così a quelle epoche in cui il tempo non veniva ancora “misurato”, almeno nel senso che diamo noi oggi a tale termine; a quelle età in cui i nostri orologi meccanici, con la loro “precisione”, sarebbero stati inconcepibili. Perché più che “misurare” il tempo, la clessidra lo lascia appunto scorrere, dileguare, e l’uomo si rapporta ad esso limitandosi a stimarlo con quella che solo agli occhi dell’uomo moderno può apparire una vaga quanto inammissibile approssimazione; approssimazione che invece per l’uomo del passato costituiva il modo più consono e naturale di rispettare il trascorrere stesso del tempo. (…)

Il sorgere e il tramontare delle costellazioni, il giorno e la notte, la sera e il mezzodì, il canto del gallo e il volo degli uccelli – unici ed effettivi riferimenti temporali dell’uomo delle società arcaiche e premoderne – rappresentano infatti unità di misurazione fluide, dove i confini netti si perdono e confondono l’un nell’altro. Era un tempo, quello, dove la parola “puntualità” era assente dal vocabolario: ci si poteva aspettare anche per interi pomeriggi, per l’intero calar del sole al tramonto, senza che ciò costituisse alcun problema. Non si era mai “di fretta” e non si aveva paura di “fare tardi”. L’uomo si adeguava al ritmo ed al corso della natura, ai suoi “tempi”; quindi il suo stesso tempo era un tempo “concreto”, legato alle molteplici attività lavorative che sullo scorrere naturale del tempo erano fondate. Ancora per gli antichi romani, la durata delle ore non era sempre la stessa, in quanto dipendeva dal tempo effettivo di luce; cosa che a noi moderni sembra un’assurdità. Perché i moderni orologi meccanici mandano in frantumi quel legame: essi misurano il tempo secondo rigide unità uniformi, perciò stesse astratte ed artificiali, che spezzano l’armonia con il tempo naturale creando una nuova “natura”, quella della “Tecnica”, che rimodella il tempo secondo propri criteri. E se per l’uomo antico era il suo concreto lavoro a fondare e scandire il tempo, per l’uomo moderno è l’astratta pianificazione temporale dei suoi orologi a fondare i tempi del lavoro e quindi dell’esistenza.

Prima dell’orologio a polvere, nelle civiltà più antiche, è stato poi l’orologio solare a mettere in relazione, con ancor maggior aderenza ai cicli naturali ed al concreto operare umano, l’uomo e il tempo. Come per l’uomo arcaico la misura del tempo poteva essere fornita dall’ombra di un monte o di un albero, o dalla sua stessa ombra – il variare della cui lunghezza egli poteva costantemente osservare nel corso del giorno -, l’orologio solare, l’antico gnomone, seguiva lo stesso principio, proiettando un’ombra indicante la posizione del sole. (…)

era quindi la luce del sole a segnare il tempo, che era il tempo, in questo caso, della liturgia e delle festività religiose, il tempo “sacro”. E il tempo, prima dell’avvento di quello “tecnico” introdotto dall’orologio meccanico, è stato sempre un tempo “sacro”: se l’orologio solare si legava al ciclo del sole, quindi al movimento degli astri, simboli visibili degli dei invisibili, il rintocco delle campane delle chiese annunciava le ore canoniche della preghiera: erano queste, in numero di otto, a scandire il ritmo della giornata, e non le astratte ventiquattro dei nostri orologi meccanici.

Il tempo dell’orologio solare è un tempo ciclico, il tempo delle stagioni e dell’eterno ritornare. E’ un tempo non umano, perché il suo principio è il sole, “occhio” del Cielo; quindi tempo celeste. E’ il tempo del destino, del fato, a cui l’uomo non può sottrarsi: il corso delle ombre non dipende da lui, così come è impossibile divincolarsi dalla propria di ombra, che, proprio come il tempo e il fato, ci segue come un ombra. (…)

Tempo inquietante, il tempo ciclico è altresì il tempo del ricordo, il tempo della nostalgia: ricordo e nostalgia delle origini, dell’Età dell’oro, quando, in illo tempore, tutto ebbe inizio. Quindi tempo delle feste, che ritornano anch’esse ciclicamente e sulla cui cadenza si sono regolati tradizionalmente i calendari. (…)

Se l’orologio solare si ricollega al Cielo, l’orologio a polvere è legato alla Terra: è quindi uno strumento di natura tellurica. (…)

E se il tempo degli orologi solari è un tempo “ciclico”, il tempo degli orologi tellurici è il tempo “lineare”: qui non abbiamo a che fare con moti circolari, bensì con movimenti di materia che scorre, fluisce, in senso appunto lineare. Siamo così di fronte alle due essenziali concezioni del tempo che, attraverso alterne vicende, hanno accompagnato il cammino dell’uomo: da una parte il tempo “mitico”, dall’altra il tempo “storico”; là il tempo del ricordo e della nostalgia, qua il tempo della speranza e dell’attesa. Il tempo ciclico è un tempo che dona e restituisce; il tempo lineare un tempo che promette. Nel primo l’Eden, dove il tempo è sospeso e non battono più le ore, è posto all’inizio, prima di tutti i tempi; nel secondo alla fine, la fine dei tempi. La differenza tra le due concezioni si esprime anche nei modi di dire e nelle espressioni della quotidianità: “il tempo passa”, “il tempo fugge” riflettono la concezione lineare; “tutto torna”, “corsi e ricorsi” la concezione ciclica.

Se l’orologio solare riflette il tempo del mito e quello a polvere il tempo della storia, l’orologio meccanico sancisce la fine della storia e l’avvento del regno della Tecnica. C’è storia, infatti, fin quando riconosciamo avvenimenti unici ed irripetibili, la cui trama disvela un senso che li lega l’un l’altro. L’orologio meccanico, dividendo il tempo in unità astratte ed uniformi, e pertanto intercambiabili – come intercambiabili sono gli individui che su di esse regolano la propria esistenza – annulla la peculiarità degli eventi e proietta l’uomo in un orizzonte privo di senso. Il tempo della Tecnica né dona né promette: si limita a “riprodurre” se stesso. Si limita a funzionare. Nel tempo della Tecnica, passato, presente e futuro sono parole “senza senso”, essendo tutti i momenti uguali, ripetibili, privi di una propria e specifica identità, dove “l’uno vale l’altro”. Nell’orologio a polvere, invece, questi tre momenti, che costituisco il filo della storia, sono ben scanditi: “nel vaso superiore – osserva Jünger – la riserva del futuro si dilegua, mentre in quella inferiore si accumulano i tesori del passato; tra le due guizzano gli attimi attraverso il punto focale del presente”. L’orologio meccanico realizza così l’aspirazione ultima dell’uomo della società tecnologica: la fine della storia e l’affermazione di un mondo che si limita a riprodurre se stesso, espandendosi indefinitivamente secondo linee di sviluppo puramente quantitative. (…)

Ancora oggi, dice Jünger, avvertiamo che “esso indica realmente un tempo diverso da quello che scorre. Anche quando parliamo del movimento, del corso del tempo, del trascorrere del tempo, alludiamo a questo tempo antico, continuo, indiviso. Ma la lancetta dell’orologio non si muove secondo le sue leggi”. La lancetta non scorre, ma si muove a scatti; si ferma per poi riscattare in avanti e così all’infinito. Che tempo è mai questo? Un tempo che non scorre più, fluido e silenzioso, come scorrevano la sabbia o l’acqua della clessidra, la fiamma che bruciava il lucignolo dell’orologio igneo o l’ombra dello gnomone seguendo i movimenti degli astri. Eppure, proprio al fine di misurarlo e dominarlo meglio, di strapparlo alle forze elementari della natura e costringerlo entro le mura della nostra città, “fu concepita l’idea di misurare e suddividere il tempo con quelle macchine che noi chiamiamo orologi. […] Così cominciarono la loro corsa tutti gli orologi che oggi ‘vanno’”. Ma, osserva Jünger, è lecito chiedersi se in questo modo ci siamo costruiti un palazzo o una prigione. Resta il fatto che “all’epoca degli orologi a polvere tutti avevano più tempo di oggi che siamo accerchiati dagli orologi”. Abbiamo voluto misurare e dominare meglio il tempo; ma forse “il mondo degli orologi e delle coincidenze è il mondo degli uomini poveri di tempo, che non hanno tempo”.

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=54420

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