venerdì 10 giugno 2016

"Il posto delle parole" il male...


Alla radice del fascino del male


Ahura mazda
Dal mio libro "Il male. Risvegliare l'umano in Hannah Arendt e Dietrich Bonhoeffer" (Gabrielli Editori). Sabato 11 giugno ne parlerò alla trasmissione radiofonica "Il posto delle parole".

In Genesi, allora, non troviamo un inizio cronologico del male, una spiegazione che individua in un peccato originale la causa da cui tutto il negativo deriverebbe a cascata.

«Siamo di fronte agli archetipi del peccato umano presentati attraverso un materiale che è debitore nei confronti delle mitologie e delle culture dei popoli. La storia jahwista contiene il più significativo tentativo biblico di una amartiologia, cioè una riflessione teologica, ma anche psicologica e antroplogica sul peccato: e il peccato è attribuito all’uomo e non a Dio. Questa è la vera specificità della Bibbia nei confronti delle altre culture e delle altre mitologie in cui il male è attribuito anche agli dèi»[1].

Nel confronto tra la Bibbia e i miti dei popoli del Vicino e Medio Oriente emerge con evidenza la questione del dualismo svelando tutte le sue implicazioni. È appunto l’operazione a cui si è dedicato Martin Buber nel suo studio, dove si è concentrato in particolare sull’Avesta, la raccolta degli antichi testi sacri dello zoroastrismo (risalente almeno al VI sec. a.C.)[2]. La sua parte più antica presenta le figure di due artefici primordiali, gemelli contrapposti, a cui risalgono il bene e il male. Entrambi sarebbero figli del dio supremo Ahura Mazda, il quale li ha generati per poi schierarsi con il figlio buono. Un mito iranico più tardo colloca alle origini il Tempo illimitato, Zurvan. In lui e da lui nasce Ahura Mazda, creatore del cielo e della terra, ma anche suo fratello Ahriman, lo spirito cattivo. Sono due narrazioni diverse, ma che convergono nel raccontare che bene e male nascono dentro al divino, come due principi primordiali della realtà che sono opposti e tra cui l’uomo deve scegliere. Bene e male stanno così alla radice di tutto ciò che esiste, sono dentro a ogni cosa. Questa idea è molto potente, esercita una forte attrazione sulla psiche umana e sulla ragione. Il negativo sembra talmente forte, talmente presente nella nostra esistenza, da sembrarci una delle due facce di una stessa medaglia.

«Siamo portati a considerare il bene e il male come due poli, due direzioni contrapposte, i due bracci, tesi a destra e a sinistra, di un segnale stradale; li si vede come appartenenti allo stesso piano dell’essere, consimili ma mutuamente contraddittori»[3].

La Bibbia respinge una visione del genere che, in una certa misura, deresponsabilizza l’uomo, perché fa del male, e soprattutto di quello da noi commesso, una sorta di destino. Inoltre, come già accennato, è una visione schizofrenica che “spacca” la realtà, porta a individuare una componente di male, a demonizzarla, a espellerla e a volerla distruggere. Si può capire come qui sia insita una forte carica di violenza e intolleranza nei confronti dell’alterità con precise conseguenze sul piano storico e sociale. Tornando al Novecento, possiamo constatare come sia stato dolorosamente segnato dalle varianti politiche del dualismo che, di volta in volta, hanno individuato il male negli altri imperi, nei non-ariani, nel sistema economico politico dell’Est o dell’Ovest, a seconda del punto di vista… Il fondamentalismo religioso ne è un “caso” particolarmente drammatico. Anche la chiesa cattolica si porta dentro l’eredità di una lunga fatica ad accettare la differenza, sintomatica di un deficit nella comprensione dell’Evangelo là dove Gesù è invece colui che oltrepassa i confini incontrando con simpatia esclusi, eretici, stranieri, peccatori. Il concilio Vaticano II ha certamente segnato una svolta (assai netta in documenti quali Gaudium et spesNostra aetateUnitatis redintegratio) che non è stata ancora pienamente recepita e che papa Francesco sta cercando di portare avanti insistendo sulla “chiesa in uscita”, sulla cultura dell’incontro, sul dialogo.

Vediamo ora come il discorso fin qui svolto trova corrispondenza nelle narrazioni bibliche prese in considerazione da Buber.

La prima è quella di Gen 3, tradizionalmente conosciuta come il racconto del peccato originale, anche se abbiamo visto l’ambiguità di questa denominazione.

Da subito, intraprendendo la lettura, possiamo constatare che il testo opera una dedivinizzazione del male: il volgersi dell’uomo al peccato inizia con la figura del tentatore, il serpente, il quale è però un animale, una creatura, non è una divinità concorrente con Dio. Il male non ha un’origine divina; il serpente simboleggia la sua presenza nel creato e nell’uomo stesso come tentazione. Infatti, Gen 3 è costruito, nella sua prima parte, come un dialogo che riproduce il processo dello sviluppo di un desiderio con una grande finezza spirituale e psicologica. All’uomo nel giardino è concesso tutto, ogni albero e frutto in una distesa sterminata, con il divieto di non mangiare il frutto di un unico albero (cfr. Gen 2,16-17). È un divieto molto piccolo, a ben vedere, che sta a dire la necessità di un limite nella libertà. Senza limiti, la libertà diventa arbitrio e poi sopruso nei confronti degli altri. Avere un limite e riconoscerlo è sano, significa non arrogarsi il diritto di stabilire egocentricamente in che cosa consistono il bene e il male – e infatti la proibizione riguarda l’albero della conoscenza del bene e del male –, il che equivale a mettersi al posto di Dio e perciò a considerarsi al di sopra di tutto e di tutti.

La non accettazione del limite diventa frustrazione che approda alla voracità, volontà di possesso a ogni costo, nella convinzione che l’oggetto del desiderio sia necessario al soddisfacimento di ogni proprio bisogno, la risposta al problema della propria vita. Il punto di arrivo di questo processo è l’aggressività che si dispiega nella continuazione di Genesi.

«Narrando la prima tentazione la Bibbia espone il paradigma di tutte le tentazioni che seguiranno: questo è il primo peccato, ma in quanto archetipo, in quanto contiene tutti gli altri, tant’è vero che nella Genesi noi troviamo un crescendo in cui il peccato di Adamo ed Eva è posto sotto il segno della voracità della bocca (mangiare il frutto proibito); il peccato di Caino nei confronti di Abele è sotto il segno della voracità verso gli altri; il peccato di Bebele rivela una voracità verso il mondo e verso il cielo (Dio), una volontà di potenza e di dominio. Ma tutto questo – passione del cibo, passione del bello, passione del viver a ogni costo – secondo i rabbini non ha che un solo nome: idolatria»[4].

Se il problema da cui abbiamo preso l’avvio è la potenza del male, i racconti biblici ne leggono la radice nel fascino esercitato dal peccato sull’uomo che nasce dall’idolatria, cioè da un falso sguardo su se stesso e sulla realtà. La questione di fondo è l’illusione che nel soddisfacimento del desiderio, nel possesso di ciò che ci manca e che non potremmo avere, vi sia la realizzazione della nostra esistenza, sottraendoci alla presa della morte.

 

[1] Martin Buber, Immagini del bene e del male, pp. 165-166.

[2] Cfr. Avesta (a cura di Arnaldo Alberti), Utet, Torino 2004.

[3] M. Buber, op. cit., 56.

[4] E. Bianchi, Adamo, dove sei?, 207.

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