lunedì 21 luglio 2014



Cinquant’anni fa usciva «Il Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini.

Scolpito nella pietra.





Cinquant’anni fa usciva «Il Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini. È forse la migliore opera su Gesù nella storia del cinema 

Mostra a Matera. Dal 21 luglio al 9 novembre il Museo nazionale d’arte medievale e moderna di Matera ospita la mostra «Pasolini a Matera. Il Vangelo secondo Matteo cinquant’anni dopo. Nuove tecniche di immagine: arte, cinema, fotografia», curata da Marta Ragozzino e Giuseppe Appella. Divisa in sei sezioni, l’esposizione racconta storia e luoghi del Vangelo in relazione al clima culturale e artistico del tempo. Lo scopo è mettere a fuoco la genesi del capolavoro e il suo rapporto con la città che nell’estate del 1964, sotto un sole «ferocemente antico», divenne Gerusalemme.

(Emilio Ranzato) Molti sostengono, non a torto, che il momento più rappresentativo del cinema di Pier Paolo Pasolini sia concentrato nella mezz’ora e poco più de La ricotta, l’episodio da lui firmato all’interno di Ro.Go.Pa.G. (1963). La vicenda che vi si racconta — quella di «Stracci», ladrone buono in un film sulla Passione che muore davvero sulla croce per un’indigestione dovuta alla troppa fame — in effetti non potrebbe essere più emblematica della poetica del regista. Ma ci sono elementi a margine della lavorazione della pellicola, che ci dicono qualcosa di ancora più significativo non solo su Pasolini, ma su tutto il cinema di quei primi anni Sessanta.

Importanti, in particolare, sono gli altri nomi coinvolti nel progetto. Oltre a Ugo Gregoretti, infatti, firmano gli episodi Roberto Rossellini e Jean-Luc Godard. Mentre attore nel ruolo del regista ne La ricotta è Orson Welles, a cui il personaggio di un pedante e viscido giornalista pone varie domande, fra cui una su Federico Fellini. Domanda inevitabile, verrebbe da dire, visto che tutta la situazione messa in scena da Pasolini ha chiare discendenze felliniane, e che lo stesso Welles assomiglia vagamente ma forse non a caso al regista riminese.
Rossellini, Godard, Welles, Fellini, dunque. Quattro nomi che corrispondono a quattro coordinate fondamentali dell’opera cinematografica pasoliniana dei primi anni. Rossellini rappresenta ovviamente il punto di partenza. Quel neorealismo che aveva dimostrato come si potesse fare poesia muovendo dal contatto diretto, spoglio con la realtà. Assunto cruciale cui pure Pasolini darà una personalissima interpretazione, arrivando persino a esiti in gran parte opposti rispetto alla rilevanza sociale e storica di quel modello, ovvero sfocianti da una parte nel mito, dall’altra nella mimesi autobiografica.
Se Rossellini aveva minato, con l’irrompere della realtà, il terreno del cinema narrativo, Godard gli darà il colpo definitivo sdoganando il linguaggio cinematografico poetico, ovvero il montaggio libero da regole espressive che non siano quelle dettate dalla poetica dell’autore stesso. Anche se Godard e Pasolini esordiscono alla regia quasi contemporaneamente, e i due arriveranno, più avanti, anche a una polemica sul rapporto fra cinema e politica, a metà decennio Pasolini si dichiara ancora affascinato dal lavoro del collega francese. In cui non può non vedere un punto di riferimento per associare a quel lessico neorealista di cui si è appropriato, una sintassi nuova, al passo coi tempi, ma soprattutto capace di dare respiro al fitto e persino ingombrante tessuto culturale e intellettuale che egli quasi suo malgrado possiede, e che invece avverte come una zavorra nella ricerca della verità di una qualsiasi rappresentazione artistica. Concetto che è proprio alla base de La ricotta. Dove la passione vera di Stracci si contrappone a quella posticcia che il regista colto e saccente interpretato da Welles voleva inscenare.
Lo stesso Welles rappresenta poi un nume tutelare per chi dirige film in questi anni. Per il suo tentativo rivoluzionario, ancorché fallito, di spezzare il sistema produttivo mettendo a capo di tutto la figura del regista. Il che, da un punto di vista politico, ne fa un antesignano dei nuovi registi-autori. Ma anche perché con Quarto potere, e con il suo Charles Foster Kane cui nessuno riesce a dare una definizione univoca, aveva suggerito un tema fondamentale del cinema moderno. Ovvero la crisi della personalità.
Non sorprende che due dei capolavori del cinema della metà degli anni Sessanta, Otto e mezzo (1963) appunto di Fellini, e Il bandito delle undici (Pierrot le fou, 1965) appunto di Godard, affrontino questo tema. Questa crisi d’identità rappresenta infatti una deriva comune a una parte sempre maggiore del mondo artistico e intellettuale via via che ci si allontana dalle facili contrapposizioni e dalle istintive tensioni morali dell’immediato dopoguerra.
Nel collaborare con Godard, nel citare Fellini, nell’impiegare Welles come attore, il Pasolini dei tempi de La ricotta — e a un passo dal progettare Il Vangelo secondo Matteo — dimostra dunque di essersi sintonizzato su questa lunghezza d’onda. Di lì a poco, infatti, confesserà di essere affetto dallo stesso «morbo» di tanti suoi colleghi. Nelle interviste, nelle poesie, in vari scritti, Pasolini tornerà quasi ossessivamente al concetto della crisi dell’intellettuale. In questo contesto, cita i nomi di altri scrittori, come Cassola o Bassani, per dimostrare come la crisi sia in effetti qualcosa di comune. Di certo è una realtà personale sempre più evidente, che nasce anche e soprattutto da un’insoddisfazione nei confronti delle soluzioni marxiste ai problemi del mondo. Soluzioni a cui sfuggiva non a caso quel sottoproletario universale protagonista dei suoi romanzi e dei suoi film, incapace di inserirsi nella lotta di classe perché non appartenente ad alcuna classe. E a malapena capace di una coscienza anche soltanto individuale. Di contro, tuttavia, Pasolini non attenuerà mai i toni contro una Chiesa che, a suo parere, nell’istituzionalizzarsi perdeva completamente di vista il proprio spirito primigenio.
Alle soglie degli anni Sessanta, dunque, Pasolini sente di trovarsi in una terra di nessuno. In un periodo e in un Paese, per giunta, in cui non prendere una posizione precisa è ancora considerato di per sé una colpa. L’artista e intellettuale, insomma, è pronto a mettere in scena la sua epocale crisi d’identità. E Il Vangelo secondo Matteo (presentato il 4 settembre 1964 a Venezia), con un Cristo interpretato da un sindacalista antifranchista, con la Madonna anziana impersonata dalla madre dello stesso regista, con la scena disseminata ancora una volta dai volti dei “suoi” sottoproletari, con la scabra ambientazione dei Sassi di Matera che ricorda molto le periferie primitive di Accattone, con i riferimenti alla pittura del Quattrocento già individuati nei due film precedenti, nasce infatti prima di tutto per Pasolini come scenario interiore, come presepe intimo in cui far confluire tutti gli elementi della propria tormentata e per molti versi contraddittoria ideologia. Senonché, proprio l’umanità febbrile e primitiva che il regista porta un’altra volta sullo schermo, finisce per conferire un vigore nuovo al verbo cristiano, che in questo contesto appare ancora più attuale, concreto, rivoluzionario. Viceversa, il regista per il resto rispetta la pagina evangelica alla lettera, e non arretra affatto neanche di fronte al racconto dei miracoli, che mette anzi in scena con l’ispirazione degna di un credente. In questo modo, confermando cioè la validità e la forza della parola cristiana da una parte, ma dandogli un contesto più vero in cui potersi propagare dall’altra, il regista vuole certamente dare una stoccata tanto al mondo marxista quanto a quello ecclesiastico. Allo stesso tempo, però, forse inaspettatamente, trova un rifugio in cui vivere in pace la propria equidistanza da quei due poli.
Ecco dunque che quello che nelle premesse doveva essere il suo film su una crisi personale, la sua variante di Otto e mezzo e Il bandito delle undici, diventa invece un’opera che individua negli insegnamenti cristiani, restituiti però alla spoglia essenza di cui si invocava un ritorno già ne La ricotta, lo strumento per uscire da quella stessa crisi. Non è un caso, allora, che ai suicidi, benché surreali o solo immaginati, con cui terminano i sopracitati omologhi di Fellini e Godard, qui si contrappone una resurrezione. Girata anche questa, fra l’altro, con la spinta emotiva, la gioia e l’urgenza di chi, al di là delle dichiarazioni ufficiali, vi crede davvero.
Che sia un film su una crisi in atto o su un suo superamento, Il Vangelo secondo Matteo rimane comunque un capolavoro, e probabilmente il miglior film su Gesù mai girato. Sicuramente, quello in cui la sua parola risuona più fluida, aerea e insieme stentorea. Scolpita nella spoglia pietra come i migliori momenti del cinema pasoliniano.
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Digitalizzato dalla Filmoteca Vaticana
(Claudia Di Giovanni) La pellicola 16 millimetri in bianco e nero de Il Vangelo secondo Matteo era nell’archivio della Filmoteca Vaticana da molti anni e nel 2005, nel corso della periodica revisione del materiale, aveva iniziato a manifestare gli inevitabili segni del tempo, perdendo soprattutto luminosità e penalizzando l’intensità delle immagini. Inizialmente si è provveduto a sostituire le scatole di metallo in cui erano riposte le bobine, onde evitare che l’ossidazione danneggiasse ulteriormente la pellicola. Fortunatamente lo scorso inverno è stato possibile riportarla al suo originario splendore, con un lavoro durato oltre sette mesi, intervenendo prima manualmente su ognuna delle quattro bobine che presentavano anche graffi e macchie. Dopo questa accurata pulizia manuale dei loro oltre millecinquecento metri, le bobine sono state passate in un liquido rigenerante che le ha rese più elastiche e ha eliminato le macchie residue. La pellicola è stata poi trasferita su supporto digitale e, grazie al telecinema, è stato possibile intervenire per migliorare eventuali difetti dell’immagine. Proiettando il lavoro finito sullo schermo, la galleria di tanti volti in primo piano ha riportato l’emozione di quell’umanità che è il cuore dell’intero film. Maria, gli apostoli, uomini e donne sullo sfondo di una storia intrisa di solitudine e fraternità, a cominciare proprio dal Cristo, uomo divino cosciente del suo fardello e del sacrificio che esso comporta. 
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Scritto nel 1968 il film non fu mai girato. San Paolo a New York

(Lucetta Scaraffia) Anche dopo Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini ha continuato a lavorare sulla tradizione cristiana: in particolare, aveva progettato di girare un film sull’apostolo Paolo. Nel 1968 aveva portato a termine un abbozzo di sceneggiatura già piuttosto completo, ma varie difficoltà ne impedirono la realizzazione, a cui evidentemente teneva molto, se tentò di trovare una produzione ancora nel 1974.

Si tratta di una proposta per molti aspetti ancora più audace di quella adottata per il Vangelo: l’intera vicenda del santo doveva essere trasportata ai nostri giorni, «per dare cinematograficamente nel modo più diretto e più violento l’impressione e la convinzione della sua attualità» o, ancor meglio, «per dire insomma esplicitamente, e senza neanche costringerlo a pensare, allo spettatore, che San Paolo è “qui, oggi, tra noi” e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia».
Pasolini si propone quindi di sostituire il conformismo dei tempi di Paolo con il conformismo contemporaneo, e quindi la scena viene trasposta in quelle città che corrispondono — oggi — a quelle dove visse l’apostolo. Il centro del mondo moderno non è più Roma, ma New York, mentre il centro culturale, ideologico e civile, non è più Gerusalemme, ma Parigi. Al posto di Atene di allora mette la Roma di oggi, e Antiochia viene sostituita da Londra. Quindi, in sostanza, il teatro in cui si muove Paolo non è più il Mediterraneo, ma l’Atlantico.
Ma la cosa più importante è che «le domande che gli evangelizzati porranno a San Paolo saranno domande di uomini moderni, specifiche, circostanziate, problematiche, politiche, formulate in un linguaggio tipico dei nostri giorni» mentre le risposte di Paolo saranno invece riprese direttamente dalle sue parole, «formulate col linguaggio tipico di San Paolo, universale ed eterno». In questo modo Pasolini vuole rivelare la problematica profonda che sta dietro al suo lavoro di sceneggiatura: cioè «la contrapposizione di “attualità” e “santità”».
Alla fine Paolo verrà condannato a morte — su sedia elettrica — in un carcere americano, per avere denunciato il mondo dei monopoli, della ricchezza e della potenza, contrapposto al mondo dei reietti, della lotta disperata dei negri.
È un vero peccato che il film non sia stato realizzato. Ma anche la sola lettura del testo preparatorio — pubblicato in un’edizione ormai introvabile da Einaudi — rende bene l’idea di Pasolini, e ci tuffa in una contemporaneità abitata dagli apostoli che coinvolge profondamente il lettore moderno.
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Il sacro nel quotidiano
(Emilio Ranzato) Pochi film come Il Vangelo secondo Matteo danno un’impressione di complessiva compattezza e solidità pur serbando in sé un totale rifiuto per uno stile. Termine viceversa sentito come un imperativo in quegli anni di nouvelle vague, in cui nel rompere sistematicamente, programmaticamente le regole vigenti fino a quel momento, si stava già creando un nuovo codice, di lì a poco altrettanto condizionante e asfissiante, oltreché riconoscibile e facilmente decifrabile. Quello del Vangelo di Pasolini, che pure a quella sensibilità si avvicina, è invece cinema completamente libero, legato soltanto all’urgente ispirazione del momento.
All’inquadratura che rimanda alla citazione colta, segue magari il movimento di macchina improvvisato o la comparsa che guarda ingenuamente nell’obiettivo; alle sequenze girate con la tipica frontalità pasoliniana, se ne contrappongono altre risolte con piani dall’angolazione spericolata alla Welles; ai lunghi silenzi spezzati qua e là dai gospel o dalle musiche di Bach, si alternano monologhi dalla lunghezza inusitata. Eppure ci vuole un occhio davvero attento per notare certe incongruenze, che di certo sfuggono comunque alle prime visioni, tanto l’insieme fila liscio.
Lo stile, se di stile si può parlare, è infatti dettato semplicemente dal divenire degli eventi che vediamo sullo schermo. Con tutto ciò che ne consegue. Ossia con l’effetto di mostrare allo spettatore episodi evangelici che sembrano uscire dal testo sacro per trasformarsi in vita concreta. Persino vita minuta, in certi momenti. Ne è un esempio già la scena iniziale, quando Giuseppe si allontana da casa e da Maria incinta, per poi aggirarsi turbato per le strade di Betlemme come farebbe un uomo qualsiasi. Ma proprio questa sequenza è invece emblematica di come Pasolini riesca straordinariamente a insinuare il sacro nel quotidiano senza soluzione di continuità. Appena prima dell’apparizione dell’angelo, una febbrile panoramica a scoprire arriva a inquadrare improvvisamente un nutrito gruppo di bambini che giocano, quasi fosse a sua volta un’epifania, preparando il campo alla visione mistica, viceversa la più sommessa che si possa immaginare.
Pasolini sembra dunque seguire ciecamente i propri protagonisti. E se questo avviene perché si tratta semplicemente dei personaggi di una sua opera, o perché intravede qualcosa di illuminante in ciò che si concretizza di fronte allo sguardo della cinepresa, sarà sempre arduo stabilirlo. Qualcosa di nuovo comunque, rispetto ai suoi film precedenti, salta facilmente all’occhio. E cioè che mentre lì il regista dimostrava di padroneggiare con sicurezza le proprie creature, di saper addomesticare in ultima battuta un materiale umano e sociale pur tanto febbrile da far parlare di riesumazione del neorealismo, qui sembra completamente abbandonarsi al fluire della pagina evangelica. È proprio in questo afflato espressivo, che sta l’impressione di un film più religioso che laico. Di certo, poche altre volte nella storia del cinema una rappresentazione che tocca corde sacre, o anche soltanto mitiche ed epiche, ha preso le mosse da un così sincero realismo.
L'Osservatore Romano

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Pasolini - Il Vangelo secondo Matteo: Battesimo, Tentazione.




Il Vangelo secondo Matteo




Prodotto da Alfredo Bini
Con Enrique Irazoqui (doppiato da Enrico Maria Salerno), Susanna Pasolini, Settimio Di Porto, Susanna Pasolini, Marcello Morante, Mario Socrate, Otello Sestili...

Italia 1964 
Ambientazione: Chia (frazione di Soriano nel Cimino, Viterbo) Barile, Castel Lagopesole, Ginosa, Le Castella, Matera, Massafra e Gioia del Colle (Pasolini avrebbe voluto girare in Palestina, ma la produzione per contenere i costi "impose" l'Italia).

« Questo film è dedicato alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII »
(dai titoli di coda)

Dichiarazione di Pasolini a proposito del film: «Il film vuole essere anche un violento richiamo alla borghesia, lanciata verso un futuro che è la distruzione degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi. Forse è perché sono così poco cattolico che ho potuto amare tanto il Vangelo e farne un film».

Curiosità: il protagonista Enrique Irazoquiera un giovane sindacalista catalano e si trovava in Italia per cercarvi appoggi contro il regime franchista. In precedenza si era pensato ad un prelato tedesco.


         

  Il Vangelo secondo Matteo da Pasolini (16:9)

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