venerdì 8 novembre 2013

Liturgia, a piccoli passi si torna al pre-Ratzinger

Papa Francesco e la Liturgia



Liturgia, a piccoli passi si torna al pre-Ratzinger




Jorge Mario Bergoglio è un gesuita, e come faceva ai tempi in cui era superiore provinciale per l'Argentina, anche da Papa accetta ben volentieri consigli, idee e suggerimenti da parte di confratelli, vescovi e cardinali che si recano in visita da lui nelle stanze della Domus Sanctae Marthae. Poi, naturalmente, decide in piena e totale autonomia. Tra i più ascoltati consiglieri, in questi primi mesi di pontificato, c'è l'arcivescovo titolare di Martirano, monsignor Piero Marini, attualmente presidente del Pontificio comitato per i congressi eucaristici e per ben vent'anni, dal 1987 al 2007, maestro delle cerimonie liturgiche. 

Una sintonia il cui timbro sarebbe dato, secondo voci provenienti da Oltretevere, dal ritorno in auge della ferula argentea che fu realizzata dallo scultore Lello Scorzelli per Paolo VI – ma utilizzata poi anche da Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e fino al 2007 anche da Joseph Ratzinger – in occasione della chiusura del Concilio Vaticano II. Dopo le prime celebrazioni di inizio pontificato in cui Francesco aveva utilizzato sempre e solo la ferula di Benedetto XVI, in seguito a un'udienza concessa a Marini, ecco il ritorno al "pastorale" papale conciliare. 

Ma è un altro e ben più rilevante particolare a indicare come sotto il profilo liturgico la situazione sia in evoluzione. A fine settembre, infatti, sono stati sostituiti tutti e cinque i consultori dell'ufficio delle cerimonie pontificie. Il loro mandato quinquennale era scaduto, ma la conferma nei rispettivi incarichi era possibile. Andando a leggere i nomi dei membri subentranti, spicca padre Silvano Maria Maggiani, capoufficio alla Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e già consultore dell'ufficio delle cerimonie fino a cinque anni fa. Sostanzialmente, nel ricambio impostato nel 2008 da Benedetto XVI, padre Maggiani era stato uno di coloro che avevano perso il posto. Ora, con il nuovo Pontefice, torna in sella. 

Fin dal primo giorno di pontificato è risultato chiaro come Francesco non abbia tra i suoi interessi maggiori l’aspetto liturgico. Lo stesso padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede, confermava che "la liturgia non è tra le priorità" del nuovo Papa. Anche perché, da buon gesuita, "nec rubricat nec cantat". L'apparizione sulla Loggia senza indossare la mozzetta rossa propria dell'abito corale papale, il rifiuto delle scarpe rosse e della croce in simil-oro, erano chiari segnali che Bergoglio prestava minore attenzione a quegli elementi che Ratzinger aveva pazientemente recuperato e che risalgono, in molti casi, ai riti preconciliari. Anche l'impianto delle cerimonie ha subito qualche "aggiornamento", come dimostra il più raro uso del latino, l'abbandono di tronetti antichi, faldistori (inginocchiatoi) che in San Pietro non si vedevano più dai tempi di Papa Roncalli. Per non parlare dei paramenti, molto più semplici (Francesco non indossa pianete, camici elaborati, dalmatica pontificale) e meno ricercati rispetto al pontificato precedente. 

Poiché il maestro delle cerimonie è sempre lo stesso (il genovese Guido Marini, proveniente dalla scuola del cardinale Giuseppe Siri), risulta facile pensare che sia il Papa ad aver impostato uno stile improntato a maggiore sobrietà. E questa non dispiace certo a monsignor Piero Marini, che mal aveva digerito il ritorno dei sette candelabri sull'altare, la celebrazione coram Deo in Sistina, i paramenti barocchi. 

Non a caso, poco dopo l'elezione di Bergoglio, l'attuale presidente del Pontificio comitato per i congressi eucaristici si rallegrava perché “la Chiesa vive la speranza dopo anni di paura”. E ancora, “si respira aria fresca, è una finestra aperta alla primavera". Tirava in ballo anche "Vatileaks e la pedofilia", arrivando a dire che "fino ad ora abbiamo respirato il cattivo odore di acque paludose". Un ritorno sulla scena in grande stile, possibile dal momento che ora “si respira un’aria diversa di libertà, una chiesa più vicina ai poveri e meno problematica”. 

Riguardo la liturgia, Marini spera che presto tornino quegli elementi che contraddistinguevano le cerimonie da lui organizzate per Karol Wojtyla. A tal proposito, solo qualche settimana fa diceva che nella celebrazione "basta inserire alcuni elementi, all’ingresso e all’offertorio, che fanno parte della vita del Paese di cui si è ospiti, perché la messa diventi subito familiare a chi vi prende parte”. Canti e danze compresi: “A Giovanni Paolo II tutto questo piaceva, voleva sempre condividere usanze e tradizioni". Un esempio è dato da un vecchio viaggio del Papa polacco in Brasile: "Ci era stato chiesto di consentire la partecipazione delle danzatrici del balletto locale. Abbiamo consentito, e sono salite sulle due rampe di scale che contornavano l’altare. Durante la danza si è levato un po’ di vento, e i loro abiti sottili si sono appiccicati al corpo. Qualcuno dei prelati presenti ha manifestato disapprovazione. Ma non avevano sentito il Pontefice che ripeteva ‘Bello, bello’”. 

Un'altra volta, proseguiva monsignor Marini, il cardinale Camillo Ruini si era lamentato con il Papa per "l’inserimento nella liturgia per i giovani di alcuni ragazzi che agitavano le braccia durante la celebrazione", ma anche il quel caso Giovanni Paolo II dimostrò che "questa presenza" era gradita. A conferma del pensiero dell'ex maestro delle cerimonie, in questo caso, c'è la grande veglia a Tor Vergata durante la giornata mondiale della gioventù del 2000. Quella sera Papa Wojtyla alzava le braccia proprio come i ragazzi che lo circondavano, a ritmo di musica. E dimostrava di gradire e divertirsi. Piero Marini è stato l'organizzatore delle grandi adunate che videro protagonista il beato Wojtyla nel corso del suo lungo pontificato: messe in enormi impianti sportivi, scenografie moderne, incontri tra il Papa e cantanti pop. La filosofia del meno silenzio e più "chiasso", come disse sempre a Tor Vergata Giovanni Paolo II. Un'idea che sembra accomunare Marini a Bergoglio. 

Da mesi viene data come più che probabile la nomina dell'arcivescovo titolare di Martirano a nuovo prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti al posto del "piccolo Ratzinger", il cardinale Antonio Cañizares Llovera, che ha chiesto di tornare in Spagna. Alcune settimane fa la nomina era data per imminente e decisa, poi tutto si è fermato. Segno che il Papa potrebbe non aver sciolto le ultime riserve, se si considera anche che la carica è per prassi cardinalizia e Marini si vedrebbe così consegnata quella porpora che gli era stata sempre negata negli ultimi otto anni. Il ritorno di mons. Marini significherebbe con ogni probabilità un ritorno all’ars celebrandi antecendente agli ultimi sei anni del pontificato di Benedetto XVI. Lo stesso ex maestro delle celebrazioni, partecipando al ritrovo annuale delle commissioni liturgiche a Erie, in Pennsylvania, confessò di “avere nostalgia e desiderio di comprendere più a fondo e sperimentare nuovamente lo spirito del Concilio”.



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Epater le bourgeois catholique


(di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro su Il Foglio del 07-11-2013)
 Prima che la traduzione in lingua volgare ne diluisse il fervore in una insipida contiguità mondana, verso la fine delle Litanie dei santi si recitava l’invocazione “Ut domnum Apostolicum et omnes ecclesiasticos ordines in sancta religione conservare digneris: Te rogamus, audi nos”. In un latino affilato e inequivocabile, i vecchi cattolici chiedevano al Signore di conservare il papa e la gerarchia tutta nella santa religione e nella retta dottrina. Non uno di quei candidi baciapile sospettava di essere irrispettoso nei confronti del Bianco Padre, della sua corte e poi giù fino all’ultimo dei diaconi e dei suddiaconi sparsi per l’Orbe cattolico.
Eppure confidavano al buon Dio il timore che persino il Sommo pontefice potesse mettere il piede in fallo in occasioni ben più gravi che un’omelia a Santa Marta o un’intervista vuoi alla stampa cattolica, vuoi a quella volterriana. Secoli di buona dottrina fatta, solo per far dei nomi, di Atanasio, Tommaso, Caetano, Suarez, Bellarmino, Gueranger, Billot, avevano depositato nella loro fede l’idea che il papa è fallibile, ragion per cui non avrebbero trovato nulla di scandaloso se qualcuno si fosse preso la briga di denunciare eventuali falli. Per parte loro, si sarebbero sentiti in colpa per non aver messo tutto il fervore che richiedeva la gravità di quella particolare invocazione delle Litanie.
Qualche decennio e un Concilio dopo, un cattolicesimo che si presenta sulla scena forte del disincanto sortito dall’abbraccio col mondo incespica là dove i suoi vecchi non avrebbero incontrato alcun inciampo. Bastano un titolo e un articolo di giornale per gridare allo scandalo.
Ritrosi come figlie di Maria senza averne il verecondo incanto, i pronipoti dei paolotti del bel tempo andato vorrebbero che i media si occupassero delle loro questioni ma senza urtarne le coscienzucce. Tanto più se la quiete viene turbata da gente di casa. Passino le provocazioni del mondo, di cui anzi sono ghiotti: da decenni le stanno rincorrendo nell’inutile tentativo di superare un fastidioso complesso di inferiorità. Ma guai se qualcuno in famiglia ha da dire sull’argenteria esibita in favore di telecamera.
Certi temi, anche se si finge di esecrare i toni, finiscono fatalmente per épater le bourgeois catholique, che è quasi sempre mondano e di sinistra anche quando pensa di essere tutt’altro. Gli si può toccare ogni certezza, ma non il superdogma della pacificazione tra Cristo e il mondo, per il quale contempla solo adesione o anatema. Ciò che lo affascina tanto in papa Francesco è l’abbraccio accogliente allo spirito mondano. Vi legge una rassicurante, unilaterale dichiarazione di pace che, una volta per tutte, possa spazzare via quei tremendi e poco borghesi concetti di lotta e di martirio.
Ma l’intimità del vivere cristiano è consustanziale alla disposizione a versare il sangue, ed è esattamente il suo venir meno che ha inquietato tante anime sante. Nel 1974, a proposito della deriva seguita al Vaticano II, don Divo Barsotti annotava nel suo diario che l’ambiguità della “Gaudium et spes” si manifestava nella rinuncia a risolvere nel martirio il rapporto tra chiesa e mondo.
Agli inizi del Novecento, Robert Hugh Benson, che avrebbe narrato nel “Padrone del mondo” la figurazione dell’anticristo, confidava di aver chiaramente percepito in una visione “una grande figura mistica distesa nel mondo. La testa, coronata di spine, riposa a Roma. Il corpo è ferito, mutilato, spogliato delle sue brillanti vesti, ma vivo, steso per terra. Le braccia e i piedi si spingono attraverso i mari e i continenti, le dita delicate cercano anime fino in Cina, il cuore palpitante comunica un sangue comune di preghiera e di fede a tutte le nazioni (…). Quest’essere immenso è vecchio di diciannove secoli. Le membra che da mille anni s’agitano nella febbre giacciono calme sotto il controllo d’un cervello infallibile. E il mondo, che prende gusto a torturarle, si stupisce della loro vitalità”.
Solo il cristiano che accetti il conflitto con lo spirito mondano può permettersi di essere misericordioso. Amare davvero il mondo, desiderare la sua salvezza, diceva Gilbert Keith Chesterton, equivale a combatterlo: “Amare qualcosa senza desiderare di combattere per averla non è amore, ma lussuria”. Dove si rinuncia all’alterità urticante della verità e della ragione, non c’è più misericordia: rimane l’esibizione e il compiacimento della propria bontà, roba poveretta buona per il palcoscenico mondano.
Avere intimamente a cuore il papa significa difenderlo dal mondo. Dall’aggressione maramaldesca e infingarda subita da Benedetto XVI e, più ancora, dall’abbraccio sinuoso e ammaliante che Francesco sembra ricambiare senza remore. Ma questi due approcci non sono gli estremi di una stessa questione poiché tra l’uno e l’altro non vi è continuità. Mentre papa Ratzinger si è fatto nemico il mondo ribadendo il rigore della ragione l’intangibilità della norma liturgica, il suo successore ne ha conquistato il consenso palesando la desistenza dell’una e dell’altra.
Pare quasi che negli atti di Francesco vi sia una sorta di catechesi della desistenza, come è avvenuto lo scorso 2 novembre nelle Grotte Vaticane, davanti alle telecamere dei tg. Volgendosi a un piccolo chierichetto che teneva le mani giunte in atteggiamento orante, il papa gliele ha aperte chiedendogli se gli si fossero incollate. Ma il bambino, evidentemente abituato a “dire le preghiere” ed educato alla lode del Signore e all’adorazione le ha prontamente offerte a maggior gloria di Dio ricongiungendole così come gli è stato insegnato.
Non potrebbe catechizzare diversamente un papa che sembra puntare tutta la sua forza persuasiva sul discorso e sul sermone derubricandolo sempre più a chiacchierata mondana. Una sorta di narrazione feriale che porta qualche gradino più in basso anche il minimo gesto rituale. Se vi sono conversioni dovute alla sapienza di certe prediche, ve ne sono tante altre, più radicali e più durature, sortite dalla scintilla di un gesto liturgico perfetto, da un inchino tra due monaci, dal genuflettersi del sacerdote davanti all’Ostia consacrata, dal giungere le mani di un bambino.
Mette i brividi pensare che, con l’ultimo ricomponimento di due piccole mani oranti, potrebbe sparire dalla terra l’ultimo gesto degno di venerazione. Ma, ora che la chiesa è divenuta un ospedale campo, questa prospettiva sembra non inquietare quasi nessuno.
La carità e la misericordia paiono affari mondani di chi, non rubricando e non cantando, non ha tempo da perdere con la liturgia. Eppure, fino a non troppo tempo fa, la chiesa era popolata di preti che sapevano carezzare con la misericordia perché sapevano sciabolare di dottrina e rigore liturgico. Li si trovava quasi sempre davanti all’altare a dire le preghiere, a recitare il breviario o salmodiare il rosario. Stavano lì, pronti a farsi carico di quanto avesse nel cuore anche l’ultimo dei barabba. La narrativa cattolica, che allora aveva ancora il senso del peccato e quindi sapeva raccontare storie esemplari, ne ha tratto splendide figure letterarie. Il don Camillo di Giovannino Guareschi è una di queste, forse la più famosa, certo la più didascalica nell’interpretare il sodalizio tutto cristiano tra inflessibilità e misericordia.
Questo parroco dalla dottrina ferma e dall’approccio ruvido, quando il sindaco comunista Peppone entra di nascosto in chiesa e offre cinque candele per chiedere la guarigione del figlio che sta morendo, non esita a inginocchiarsi davanti alla Vergine per compiere il rito di mediazione tra terra e cielo. E poi, in riparazione del torto compiuto da Peppone ai danni del Crocifisso, esce di corsa per tornare con altre cinque candele: “’Ve l’avevo detto?’ gridò sciorinando un pacco davanti alla balaustra. ‘Mi ha portato cinque candele da accendere anche a voi! Cosa ne dite? (…) Si direbbe persino che mandino più luce delle altre’.
E veramente mandavano più luce delle altre perché erano cinque candele che don Camillo era corso a comprare in paese facendo venir giù dal letto il droghiere e dando soltanto un acconto perché don Camillo era povero in canna. E tutto questo il Cristo lo sapeva benissimo e non disse niente, ma una lacrima scivolò giù dai suoi occhi e rigò di un filo d’argento il legno nero della croce. E questo voleva dire il bambino di Peppone era salvo. E così fu”.
Un saggio di pura, affilata, soprannaturale carità, dove non c’è la minima concessione alla tenerezza poiché il narratore ha sapientemente tolto di scena il possibile oggetto di un sentimento così umano: Peppone è scomparso nella notte e, nel silenzio della chiesa, a esaltare il sacerdozio di don Camillo non vi è altro testimone che il Cristo crocifisso. E’ questo cristianissimo sottrarsi al mondo e ai suoi testimoni che induce il Signore dell’universo a donare quella lacrima che riga il legno nero della croce. Specchio di una ineludibile lotta tra la gravità del mondo e la levità della Grazia, quel filo d’argento si manifesta per mostrare quanta efficacia abbia nella vita quotidiana il rito.
Per uno di quei celesti paradossi che ne testimoniano l’origine divina, la religione cattolica ha sempre insegnato che, per attrarre il mondo bisogna ritrarsene. Per questo la sua lex credendi, il suo credo, ha sempre trovato corrispondenza ed efficacia nella lex orandi, la sua liturgia. E per questo ha sempre saputo parlare agli uomini di ogni tempo, che sono creature razionali e, quindi, liturgiche. Nella vita della chiesa, generazioni di sacerdoti hanno conteso al mondo le pecore del loro gregge, risonando di buona dottrina e profumando di nardo e incenso. Lo hanno fatto i preti delle parrocchie più sperdute ogni volta che, rivestendosi con camici, pianete, stole e piviali, divenivano presso gli uomini ragionevoli messaggeri di un altro mondo. Lo hanno fatto i vescovi che, con le loro cerimonie, erigevano ponti tra l’umano e il divino. Lo ha fatto il papa che, nel corso dei secoli, ha persino umiliato il suo corpo dentro un cerimoniale che anticipava la liturgia celeste.
A fronte di tutto questo, il minimalismo rituale inaugurato da papa Francesco può difficilmente essere visto come qualcosa di diverso da una decostruzione. L’identificazione tra la persona di Jorge Mario Brgoglio e il ruolo del pontefice, che grazie a i media si fa sempre più perfetta, sta finendo di smontare la tradizionale immagine del papa. I media, inabili a comprendere l’istituzione divina, sono voraci della fisicità del pontefice. Non sanno che farsene della medievaleggiante e impersonale “persona papae”, della “persona del papa”, preferiscono cibarsi di una postmoderna corporeità priva di simboli che rimandino a un mondo ulteriore.
Quella gran macchina istituzionale e rituale che è la “persona papae”, oggi additata da un malinteso senso dell’umiltà come inutile sovrastruttura superata dai tempi, nasce da una vera e propria sottomissione della persona fisica all’istituzione. “Nessun altro sovrano medievale e moderno” scrive Agostino Paravicini Bagliani in un saggio sul “Potere del Papa” “è stato sottomesso ad una così complessa e continua creatività retorica e rituale di caducità, destinata a ricordare al pontefice romano che la potestas che gli è stata affidata cessa con la sua morte. E per nessun altro sovrano medievale e moderno fu messa in opera un’ecclesiologia, una ritualità e una inventività simbolica avente l’obbiettivo di costruire una ‘supra-persona’, ossia la ‘persona papae’”.
A partire da Pier Damiani con la sua lettera “De brevitate vitae pontificum Romanorum” per arrivare fino a Egidio Romano, teologo di Bonifacio VIII, i medievali hanno messo a punto un sapiente dispositivo di autoumiliazione che, ricoprendolo di abiti, di simboli e di riti, annullava l’uomo fisico eletto al soglio di Pietro per erigere la “persona del papa”.
A nessun altro cristiano era chiesto un simile sacrificio e anche cerimoniali come quello delle ceneri avevano elementi di ulteriore umiliazione nei confronti del pontefice romano. Ma era proprio attraverso il massimo dell’umiliazione della persona fisica che poteva risplendere la figura del Vicario di Cristo. Nel 1178, il cardinale Bosone, narrando il ritorno trionfale di papa Alessandro III a Roma dopo la vittoria sull’imperatore Federico Barbarossa, scriveva “Allora tutti guardarono il suo volto come il volto di Cristo di cui egli fa le veci in terra”.
Lo splendore rituale e istituzionale di questa macchina celeste ha affascinato i raffinati uomini medievali e ha permesso ai cattolici di ogni tempo di gridare “Viva il papa” chiunque fosse il papa. Per questo piace poco al mondo che, non comprendendone la natura, tenta di renderla inoperante disabilitando i destinatari del messaggio: è difficile immaginare che anche una minima parte dei dieci milioni di follower di papa Francesco pensino di cinguettare con la “persona papae”.
Ma all’opera del mondo, per quanto tenace e capillare, sopravvive sempre, qualche vestigia celeste, il segno di un amore insopprimibile, perché la carne della “persona del papa”, a differenza di quella dei singoli pontefici, è quasi spirituale e non può morire.
Questa certezza si è sempre trasmessa oltre le grandi celebrazioni per arrivare intatta con tutta la sua forza sino ai più semplici gesti privati, come mostra Chesterton raccontando il suo incontro con Pio XI: “In realtà avevo un tale turbine nel cervello che non so davvero dire di che cosa fosse frutto ogni mia parola. Poi fece un gesto e ci mettemmo tutti in ginocchio e nelle sue parole che seguirono compresi per la prima volta quello che diede origine all’uso del pronome plurale di cerimonia e all’improvviso vidi il significato di quella che m’era apparsa un’abitudine regale priva di significato. Con una voce forte che non pareva più la sua incominciò a dire: ‘Nous vous bénissons’, e io compresi di trovarmi di fronte a qualcosa che trascende infinitamente l’individuo, compresi che nel ‘Noi’ sono veramente inclusi Pietro e Gregorio e Ildebrando e tutta la dinastia che non muore.
Poi, mentre egli proseguiva, ci rizzammo in piedi, uscimmo dal palazzo tra gruppi di svizzeri e di guardie papali e ci ritrovammo all’aperto. Dissi al dignitario ecclesiastico: ‘Ho avuto paura più di quanto ne ho mai avuta nella mia vita’ e il dignitario ecclesiastico rise di me”.

Quel gran cattolico di Chesterton la sua paura se l’è gustata per tutta la vita come fa un bambino con il balocco più prezioso. Ma se l’avesse confessata oggi, nella chiesa della tenerezza e della misericordia, qualcuno gli avrebbe nascosto il giocattolo chissà dove: per aiutarlo a diventare adulto e almeno un po’ mondano.

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