martedì 22 ottobre 2013

La crisi porta progresso ?

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 “Non pretendiamo che le cose cambino, se facciamo sempre la stessa cosa. La crisi è la migliore benedizione che può arrivare a persone e Paesi, perché la crisi porta progressi.
La creattività nasce dalle difficoltà nello stesso modo che il giorno nasce dalle notte oscura. E’ dalla crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i propri insuccessi e disagi, inibisce il proprio talento e ha più rispetto dei problemi che delle soluzioni. La vera crisi è la crisi dell’incompetenza. La convenienza delle persone e dei Paesi è di trovare soluzioni e vie d’uscita. Senza crisi con ci sono sfide e senza sfida la vita è una routine, una lunga agonia. Senza crisi non ci sono meriti. E’ dalla crisi che affiora il meglio di ciascuno, poiché senza crisi ogni vento è una carezza.  Parlare della crisi significa promuoverla e non nominarla vuol dire esattamente il conformismo. Invece di ciò dobbiamo lavorare duro.
Terminiamo definitivamente con l’unica crisi che ci minaccia, cioè la tragedia di non voler lottare per superarla.”
Albert Einstein, 1955.


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- Ecco la soluzione: la vita vissuta al contrario
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Arte e...Cultura!!
Tanti link utili per scoprire i siti di arte e programmare un week end diverso, all'insegna della cultura, della storia e delle ultime innovazioni artistiche.- http://arte.tiscali.it/mostre/mostre_mese/
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Arte Italiana
Il Giudizio universale, affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina
L'arte italiana si sviluppò nella penisola italica fin dalla preistoria. Durante l'Impero romano l'Italia fu al centro di una cultura artistica che per la prima volta creò un linguaggio universalmente omogeneo per il mondo europeo e mediterraneo. In alcuni periodi l'Italia fu il paese artisticamente più all'avanguardia d'Europa.
L’arte figurativa Italiana nei secoli:1 Arte preistorica e protostorica >>> - 2 Magna Grecia >>> - 3 Etruschi >>> - 4 Romani >>> - 5 Arte paleocristiana >>> - 6 Bizantini >>> - 7 Longobardi >>> - 8 Alto medioevo >>> - 9 Romanico >>> - 10 Gotico >>> - 11 Rinascimento >>> - 12 Manierismo >>> - 13 Barocco >>> - 14 Rococò >>> - 15 Neoclassicismo >>> - 16 Macchiaioli e Verismo >>> - 17 XX secolo >>> (17.1 Il Futurismo 17.2 La Pittura metafisica 17.3 L'Astrattismo e l'Arte concettuale 17.4 La Pop Art 17.5 L'Arte Povera 17.6 La Transavanguardia 17.7 Il Movimento Moderno in Architettura 17.8 Il Cinema Neorealista) - 18 Arte contemporanea >>>

Il Rinascimento
Raffaello - Lo sposalizio della Vergine Olio su tavola , 174 × 121 cm Milano, Pinacoteca di Brera
Il Rinascimento iniziò nel XIV secolo in Italia, a partire dal risveglio umanistico della letteratura di Petrarca e Boccaccio. La riscoperta dell'arte romana, della prospettiva, delle proporzioni nel corpo e dell'uso della luce rivoluzionarono il mondo dell'arte europea. Il primo centro interessato dalla nuova cultura figurativa fu Firenze, seguita a breve distanza dalle altre corti della penisola (Mantova, Ferrara, Urbino...), dalla Roma papale. Gli artisti iniziatori di questa rivoluzione furono Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti per l'architettura, Masaccio, Filippo Lippi e Botticelli per la pittura, Donatello e Lorenzo Ghiberti per la scultura. L'arte veneziana scoprì la prospettiva aerea e un uso del colore mai sperimentato prima (Giorgione, Tiziano). Alla vigilia del XVI secolo vennero alla ribalta tre geni versatili, dotati in più discipline (Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio), che crearono alcuni dei capolavori più celebri dell'arte universale. Tra i maestri non toscani né veneziani spiccarono Correggio, Cosmè, Tura, Bramante.


L'Ultima cena - Leonardo da Vinci
L'Ultima cena (detta anche il Cenacolo) è un affresco di Leonardo da Vinci eseguito per il suo committente , il duca di Milano Lodovico Sforza. Rappresenta la scena dell'ultima cena di Gesù; il dipinto si basa sul Vangelo di Giovanni 13:21, nel quale Gesù annuncia che verrà tradito da uno dei suoi discepoli. L'opera misura 4,6 × 8,8 m e si trova nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano. Leonardo iniziò a lavorarvi nel 1495 e la completò nel 1498, come testimoniato da Luca Pacioli che in data 4 febbraio di quell'anno ne parla come di un'opera compiuta. Come è noto, non si tratta di un affresco, in quanto Leonardo non ha mai realizzato affreschi nel senso esatto del termine. L'affresco è caratterizzato da una pittura stesa su uno strato di intonaco ancora fresco dove, a seguito del fenomeno di carbonatazione, il pigmento della pittura diventa parte dell'intonaco stesso garantendo una grande resistenza nel tempo. Leonardo, invece, a causa dei suoi lunghi tempi realizzativi e delle frequenti correzioni in vista del risultato finale, non "affrescava", metodo che richiede grande rapidità di esecuzione. Prediligeva invece dipingere su muro come dipingeva su tavola; i recenti restauri hanno permesso di appurare che l'artista usò una tempera grassa a base di olio di lino e di uovo stesa su un duplice strato di intonaco. La tecnica impiegata e l'uso di materiali organici, però, determinò ben presto un degrado dell'opera già citato dal Vasari nelle Vite. Stupisce nel Cenacolo la presenza di dettagli molto precisi visibili solo da distanza ravvicinata.Il campanile di Giotto E’la torre campanaria di Santa Maria del Fiore, la cattedrale di Firenze, e si trova in piazza del Duomo. (immagine >>>)
Le sue fondazioni furono scavate attorno al 1298 all'inizio del cantiere della nuova cattedrale, quando capomastro era Arnolfo di Cambio. La posizione inusuale del campanile, allineato con la facciata, riflette la volontà di conferirgli una grande importanza come segno di forte verticalità al centro della Insula Episcopalis, oltre probabilmente alla necessità pratica di liberare la visuale della zona absidale per la grande cupola, prevista sin dal progetto arnolfiano. Nel 1334 Giotto di Bondone subentrò nell'incarico di capomastro occupandosi subito della costruzione del primo piano del campanile e disinteressandosi - secondo quanto sostiene una leggenda - del cantiere della basilica. Giotto fornì un progetto originale del campanile, con una terminazione a cuspide piramidale alta 50 braccia fiorentine (circa 30 metri), secondo cui l'elevazione totale sarebbe dovuta essere di 110-115 metri circa (l'altezza attuale è invece di 84,75 metri). Un disegno conservato nel Museo dell'Opera del Duomo di Siena è considerato da alcuni studiosi ispirato a questo progetto. L'impronta giottesca è soprattutto evidente nel pittoricismo del raffinatissimo rivestimento in marmi bianchi (provenienti dalle cave di Campiglia Marittima e Pietrasanta), verdi (serpentino di Prato) e rossi (Monsummano Terme, Siena), e soprattutto nel grandioso ciclo figurativo che adorna il basamento del campanile: una serie di raffigurazioni che accomunano il campanile ad altre grandi imprese della scultura figurativa come i portali delle cattedrali romaniche e gotiche (Arles, Fidenza, Chartres, Orvieto), ma i confronti più stringenti si possono fare con i rilievi della Fontana Maggiore a Perugia (1275-1278) opera di Nicola e Giovanni Pisano e quelli del Battistero di Parma col celebre zooforo di Benedetto Antelami (1216 circa). Anche se la critica non ha riconosciuto con certezza la mano del maestro in alcuno dei rilievi, non si può mettere in dubbio la sua partecipazione alla stesura del programma iconografico. Alla morte di Giotto nel 1337 solo il primo dado era compiuto, e già si erano evidenziate le carenze strutturali del progetto: l'Anonimo autore di un Commentario alla Divina Commedia del XIV secolo riferisce la leggenda che Giotto fosse morto di dolore per avere dato al campanile poco ceppo da pie'... In effetti, i più recenti rilievi effettuati sul campanile proverebbero che il progetto iniziale prevedeva uno spessore murario alla base di 1,60 metri, che non avrebbe consentito alla torre di raggiungere l'altezza prevista. Al di sopra del primo livello, inoltre, Giotto aveva fatto eseguire una risega (arretramento della faccia esterna dei muri) di ben 24 centimetri che restringeva lo spessore dei muri di quasi mezzo metro. In più, la scala di accesso ai piani superiori non era prevista - come normalmente avviene - a sbalzo nel pozzo centrale della struttura, ma scavata al centro delle muraglie, soluzione che permetteva sì di ottenere una serie di locali di grande dimensione e ben sfruttabili, ma che indeboliva ulteriormente il basamento.

Torre pendente di PisaLa cosiddetta
torre pendente di Pisa (chiamata semplicemente torre pendente o torre di Pisa) è il campanile della Cattedrale di Santa Maria Assunta, nella celeberrima Piazza del Duomo di cui è il monumento più famoso per via della caratteristica pendenza. Si tratta di un campanile a sé stante, alto circa 56 metri e costruito nell'arco di due secoli, tra il dodicesimo e il quattordicesimo. Pesa 14.453 tonnellate, predomina la linea curva, con giri di arcate cieche e sei piani di loggette. La sua pendenza è dovuta ad un cedimento del terreno verificatosi già nelle prime fasi della costruzione. L'inclinazione dell'edificio attualmente misura 5°30' rispetto all'asse verticale. La torre di Pisa rimane in equilibrio perché la verticale che passa per il suo baricentro cade all'interno della base di appoggio. I lavori iniziarono il 9 agosto del 1173 che, secondo il calendario pisano, era il 1174, in quanto l'anno iniziava il 25 marzo. Come era solito compiere con i fari, e con le costruzioni adiacenti al mare in genere, le fondazioni vennero lasciate a riposare per un anno intero.  Alcuni studi tra i più recenti attribuiscono la paternità del progetto a Diotisalvi, che nello stesso periodo stava costruendo il Battistero. Le analogie tra i due edifici sono infatti molte, a partire dal tipo di fondazioni. Altri suggeriscono invece Gherardi, mentre secondo il Vasari i lavori furono iniziati da Bonanno Pisano. La tesi del Vasari è basata sul ritrovamento nelle vicinanze della torre di una pietra tombale col nome del Bonanno, che oggi si trova murata nell'atrio della torre; inoltre nell'Ottocento fu rinvenuto sempre nei dintorni un frammento epigrafico di materiale rosa, probabilmente un calco su cui venne fusa una lastra metallica, che attualmente trova collocazione sullo stipite della porta di ingresso dell'edificio. Su tale frammento si legge, ovviamente rovesciato: "cittadino pisano di nome Bonanno". Tale calco con tutta probabilità era relativo alla porta regia del Duomo, distrutta durante l'incendio del 1595.                                                                                            
La prima fase dei lavori fu interrotta a metà del terzo piano, a causa del cedimento del terreno su cui sorge la base della torre. La cedevolezza del terreno, costituito da argilla molle normal consolidata, è la causa della pendenza della torre e, sebbene in misura minore, di tutti gli edifici nella piazza. I lavori ripresero nel 1275 sotto la guida di Giovanni di Simone e Giovanni Pisano, aggiungendo alla costruzione precedente altri tre piani. Nel tentativo di raddrizzare la torre, i tre piani aggiunti tendono ad incurvarsi in senso opposto alla pendenza. La torre fu completata alla metà del secolo successivo, aggiungendo la cella campanaria. Dalla sua costruzione ad oggi lo strapiombo è sostanzialmente aumentato ma nel corso dei secoli ci sono stati anche lunghi periodi di stabilità o addirittura di riduzione della pendenza. Negli ultimi decenni del XX secolo l'inclinazione ha subito un deciso incremento tanto che il pericolo del crollo si era fatto concreto. Nel 1993 lo spostamento dalla sommità dell'asse alla base era stato valutato in circa 4,47 metri.

La Gioconda di Leonardo da Vinci
La Gioconda, nota anche come Monna Lisa, è un dipinto di Leonardo da Vinci che mostra una donna con un'espressione pensierosa e un leggero sorriso quasi enigmatico. È forse uno dei dipinti più famosi al mondo, essendo un'icona stessa della pittura, o delle arti visuali in generale. Venne dipinto a Firenze tra il 1503 e il 1506. È proprietà dello Stato francese ed è esposta al Museo del Louvre di Parigi.
Il nome "la Joconda" compare per la prima volta in un documento del 1525 in cui vengono elencati alcuni dipinti che si trovano tra i beni di Gian Giacomo Caprotti detto "Salai", allievo di Leonardo che seguì il maestro in Francia.  Un secolo dopo, nel 1625, il ritratto chiamato "la Gioconda" viene descritto da Cassiano dal Pozzo tra le opere delle collezioni reali francesi. In particolare il dipinto di Leonardo sarebbe stato esposto nella Salle de Bain del castello di Fontainebleau. L'identità della donna ritratta nel dipinto non è del tutto certa, anche se recentemente lo studioso fiorentino Giuseppe Pallanti, avrebbe confermato le testimonianze del Vasari che riconosceva in Lisa Gherardini la modella del celebre quadro. Lisa sarebbe stata una esponente di un ramo secondario della famiglia Gherardini che venne in gran parte esiliata durante la guerra civile tra guelfi e ghibellini. Lisa, andata come seconda moglie in sposa a Francesco Bartolomeo del Giocondo (da cui il nome di "Gioconda"), fu secondo alcuni storici una amante di uno dei Medici. La stessa famiglia Gherardini, per bocca della Contessa Cinzia, discendente della casata, ha più volte confermato la tesi del Vasari. Vasari però ha lasciato una descrizione del quadro che non corrisponde alla realtà: Vasari esalta l'abilità straordinaria di Leonardo nel descrivere la peluria delle sopracciglia (che la Gioconda non ha), descrive anche la lunghezza arcuata delle ciglia (che sono invece corte), esalta le fossette sulle guance (fossette che non ci sono). Negli ultimi giorni è stato scoperto che tutto ciò che Vasari aveva detto corrisponde alla realtà: infatti si è verificato che fu molte volte modificata e prima aveva sopracciglia e ciglia lunghe. A sostegno delle testimonianze del Vasari, nel 2005 il Professor Veit Probst, storico e direttore della Biblioteca di Heidelberg in Germania, ha annunciato il ritrovamento effettuato dallo studioso Armin Schlechter di un appunto datato 1503 che conferma inequivocabilmente l'identità di Lisa e la tesi del Vasari. Nell'appunto infatti il Cancelliere fiorentino Agostino Vespucci afferma che Leonardo sta lavorando al ritratto di Lisa del Giocondo: Apelles pictor. Ita Leonardus Vincius facit in omnibus suis picturis, ut enim caput Lise del Giocondo et Anne matris virginis. Videbimus, quid faciet de aula magni consilii, de qua re convenit iam cum vexillifero. 1503 octobris. Precedenti ricerche affermavano già che si trattasse della benestante signora fiorentina, Madonna Lisa del Giocondo, da cui deriva l'altro nome con cui è conosciuto il ritratto, ma non ne avevano prove documentarie. Il dipinto è stato restaurato varie volte: analisi ai raggi X hanno mostrato che ci sono tre versioni della Monna Lisa, nascoste sotto quella attuale. Secondo studi datati settembre 2006 effettuati dal Centro Nazionale di Ricerca e Restauro dei Musei di Francia sembrerebbe che la donna, identificata come Lisa Gherardini, fosse ricoperta da un fine velo di mussolina, che all'epoca era portato dalle donne in attesa o che avevano appena dato alla luce un figlio. La vernice aveva finora nascosto questo dettaglio, che può ora spiegare l'enigmatico sorriso con lo stato interessante della donna. Da questi sofisticati studi sull'immagine è emerso il particolare che dietro il dipinto vi è lo schizzo inciso sul legno da Leonardo, il quale prima di dipingere il quadro ne avrebbe abbozzato la struttura. Dove appare la figura di Monna Lisa con una cuffia, sarà stato di certo un ripensamento dello stesso artista, perché difatti è noto a noi che la Gioconda porta i capelli liberi.
A causa della sopraffacente statura del quadro, i dadaisti e i surrealisti ne hanno spesso prodotto modifiche e caricature, ad esempio aggiungendo dei baffi sul volto della donna.

Antonio Allegri da Correggio (1489 - 1534)
Particolare della Cupola di S. Giovanni a Parma (
immagine >>>)

Di tutti i grandi protagonisti della sua epoca, Correggio è l’artista meno documentato e numerose sono le leggende, affermatesi nei secoli, sulla sua biografia.                                                                Tuttavia, resta importante la testimonianza di Giorgio Vasari, primo biografo del pittore, circa la morte dello stesso, che sarebbe avvenuta dopo un estenuante viaggio a piedi da Parma, sotto il peso di un enorme sacco di piccole monete da un quattrino, per un totale di 60 scudi. Una leggenda che non regge all’analisi dei fatti e delle fonti, ma che rende alla perfezione le incertezze e le difficoltà di una ricostruzione puntuale e completa della vita dell’artista. Il giovane Correggio accoglie le suggestioni chiaroscurali leonardesche e da Raffaello acquisisce l’uso dello sfumato, creando immagini dai contorni volutamente indefiniti. È anche partecipe, nel segno di una grandissima apertura culturale, dell’esperienza dei veneziani e dei ferraresi, Cima da Conegliano, Costa, Dossi, e degli artisti nordici, Dürer e Altdorfer.  Testimonianza di questa fase giovanile sono due capolavori: la Natività di Brera e la Madonna di San Francesco, già nella chiesa di San Francesco a Correggio e oggi a Dresda, commissionatagli nel 1514. Gli studiosi sono concordi nel datare intorno alla fine del primo decennio del Cinquecento un suo viaggio a Roma, che fu fondamentale per apprendere direttamente dai modelli antichi e le straordinarie novità di Raffaello e del giovane Michelangelo. Fino agli anni Venti, Correggio è autore di dipinti di piccole dimensioni, destinati per lo più alla devozione privata, ad eccezione di una perduta pala della Madonna di Albinea e di un Riposo durante la fuga in Egitto con San Francesco, che chiude il primo periodo della sua carriera. A quel tempo l’artista risiedeva ancora nella cittadina natale, centro per nulla secondario nella vita culturale del tempo, dove la corte di Veronica Gambara, amica di poeti quali Aretino, Ariosto, Dolce, Bembo aveva assicurato alla piccola contea un prestigio che andava ben oltre i confini locali. Il secondo periodo della vita del Correggio si concentra a Parma, dove è attivo a partire dal 1520 con l’esecuzione di un’opera enigmatica e di elevata raffinatezza stilistica: il Ritratto di gentildonna (variamente identificata in Veronica Gambara o Ginevra Rangone) firmato con la colta latinizzazione del suo nome: Anton(ius) Laet (us). A Parma nello stesso anno si cimenta nella sua prima grande impresa pittorica con la decorazione della camera della badessa Giovanna Piacenza nel convento di San Paolo, in cui dipinge nel soffitto un pergolato con tondi di ghirlande da cui si affacciano dei putti, mentre nella zona inferiore inserisce delle lunette a monocromo con bassorilievi anticheggianti, con un chiaroscuro tenue e vibrante. Sempre a Parma l'anno successivo decora l'abside e la cupola della Chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma, di cui oggi restano solo la decorazione della cupola, con il Transito di san Giovanni e la figura di apostolo nel transetto sinistro, mentre dell'Incoronazione della Vergine rimane solo un frammento nella Galleria Nazionale di Parma. Nella cupola usa lo sfondato, cioè simula un cielo aperto con le monumentali figure degli apostoli a fare da corona, seguendo il perimetro della cupola, al Cristo sospeso a mezz'aria. L'eliminazione di ogni elemento architettonico e il tono cromatico forte e violento accrescono la suggestione della scena. Nel 1522 stipula il contratto per la decorazione del coro e della cupola della cattedrale di Parma. Nella cupola è dipinta la scena dell'Assunzione della Vergine in cui una moltitudine di angeli disposti in forma di vortice ascendente accompagnano l'ascesa della Madonna su un cielo nuvoloso. Qui le figure perdono l'individualità, diventando parte integrante di una grandiosa scena corale, esaltata dall'uso di tinte chiare, leggeri e fluenti che creano un continuo armonico fino al punto di volta.  Tra il 1524 e il 1527 eseguì la tela con Giove e Antiope, oggi conservata al Louvre, che rappresenta l'Amore terrestre, e L'educazione di Amore della National Gallery di Londra, che rappresenta l'Amore celeste.  Ormai affermato e stimato dalle corti padane, trascorre gli ultimi anni di vita nel tentativo di esaudire le numerose richieste di opere che gli provenivano da molti signori locali ed in particolare da quelle mantovane; non è casuale che nelle collezioni Gonzaga, si trovassero Venere con Mercurio e Cupido (L’Educazione di Amore) e Venere e Cupido con un satiro (ambedue 1527-28), poi acquistate da Carlo I d'Inghilterra nel 1628.  Isabella d'Este, marchesa di Mantova, commissiona all’Allegri le due opere che avrebbero completato la decorazione del suo studiolo nel Palazzo Ducale di Mantova, certamente l’ambiente per lei più caro ed intimo. Vengono così realizzati verso il 1531, l’Allegoria del Vizio e l’Allegoria della Virtù, due tele che rappresentano uno dei punti più alti della sua pittura e che preludono, in un certo senso, ai quattro capolavori con i quali si conclude la sua attività: i cosiddetti Amori di Giove (Danae, Leda e il cigno, Ganimede e l'aquila, Giove e Io), commissionatigli dal duca Federico II Gonzaga.  Rientrato in patria, Correggio vi muore improvvisamente il 5 marzo 1534. Il giorno seguente viene sepolto in San Francesco a Correggio vicino al suo capolavoro giovanile, la celebre pala di San Francesco oggi a Dresda.Tiziano Vecellio (1480-1576) è stato un celebre pittore italiano. Artista innovatore e poliedrico, maestro con Giorgione del colore tonale, Tiziano Vecellio è uno dei pochi pittori italiani titolari di una vera e propria azienda, imprenditore dell'arte sua propria e della bottega, direttamente a contatto con i potenti dell'epoca, suoi maggiori committenti. Il rinnovamento della pittura di cui fu autore, si basò, in alternativa al michelangiolesco «primato del disegno», sull'uso personalissimo del colore.   La sua biografia e il suo itinerario creativo trovano importanti fonti documentarie negli scrittori a lui contemporanei: Pietro Aretino (Epistolario), Ludovico Dolce (Dialogo di pittura), Paolo Pino, Giorgio Vasari (la seconda edizione delle Vite) riportano molteplici dati e spunti critici che lo riguardano, oltre, naturalmente, alle lettere da lui stesso scritte ai vari committenti, in particolare alla corte spagnola.
La prima pala d'altare, San Marco in trono per la chiesa di Santa Maria della Salute, del 1510, è la conferma della pienezza della concezione coloristica dell'artista e del suo originale trattamento della luce. Ma è anche, di nuovo, un chiaro messaggio, politico e ideologico, di virtù civiche veneziane. Il quadro è sicuramente un ex voto dipinto durante la peste che affligge Venezia in quegli anni: ci sono San Rocco e San Sebastiano da una parte, protettori contro il morbo, dall'altra Cosma e Damiano, che furono medici, e così rinforzano la protezione. Poi, più su, al centro, sul piedistallo, dove ci saremmo aspettati una Madonna con bambino, c'è San Marco. Ma San Marco è naturalmente Venezia, indubitabilmente. Dunque il messaggio è piuttosto chiaro: la salvezza, per Venezia, non arriverà dall'alto dei cieli, ma dalle sue insite virtù civili. Salvarsi dalla peste è – meglio – preciso compito del governo della Repubblica. Il 27 aprile 1509 Giulio II scomunica Venezia e si scatena la guerra della Lega contro la Serenissima; il 5 giugno gli imperiali prendono Padova; il 17 luglio la città viene riconquistata dalle forze della Repubblica. L'anno successivo la già programmata decorazione della Scuola del Santo assume anche il preciso significato politico di celebrare una sorta di pax veneta, riconsegnando la città al suo nume tutelare. La commissione a Tiziano, visti i precedenti, è inevitabile. I Miracoli di sant'Antonio, ciclo di affreschi ultimati a Padova nel 1511, come detto, alla Scuola del Santo, costituiscono il primo vero grande lavoro autonomo di Tiziano. L'artista si cimenta in una classica composizione di grande respiro e risolve la costruzione creando gruppi di figure immerse nel paesaggio, dominando lo spazio grazie alla moderna invenzione di masse di colore trattate in modo tanto personale come in Veneto fino allora non s'era mai visto. La sua spiccata personalità, evidente soprattutto nel Miracolo del marito geloso lo impone all'attenzione dell'intera regione come il più vero erede dell'ormai ottuagenario Bellini e fa il vuoto attorno a sé: Sebastiano del Piombo parte per Roma, la tradizione locale, che vedeva in Carpaccio il suo punto di riferimento, sembra improvvisamente vecchia di secoli. Vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Tiziano
San Marco in trono, 1510, Olio su tavola, 218 x 149, Venezia, Santa Maria della Salute (immagine >>>)

Botticelli  (1445 - 1510)Alessandro Filipepi, detto Sandro e poi soprannominato Botticelli dal nomignolo con cui era noto il fratello Antonio, nasce a Firenze nel 1445.
Il padre, Mariano Filipepi, è un conciatore di pelli e, nonostante non sia consuetudine per una famiglia come la sua, decide che il figlio compia approfonditi studi letterari.
A questa formazione, segue il praticantato pittorico presso la bottega del vecchio Filippo Lippi, dal quale Botticelli si fa guidare per tre anni, assimilandone molte caratteristiche. Al termine di questo periodo, sembra che Sandro vada a bottega da Andrea del Verrocchio o, quantomeno, gli faccia da aiutante per un certo tempo. E’ il 1467: Botticelli dipinge alcune “
Madonna con Bambino” (fonte: www.bottegadartetoscana.it) segnate da una forte influenza del Lippi, cui esse sono state a lungo attribuite dalla critica. Già nel 1470, appena venticinquenne, Botticelli - grazie all’aiuto di Tommaso Soderini, amico della famiglia Medici - ottiene il suo primo incarico ufficiale importante: la “Fortezza”, figura allegorica destinata al Tribunale di Firenze.
Nel 1472, Sandro è definitivamente indipendente, tanto che s’iscrive all’Accademia di San Luca. In pochi anni, il giovane pittore fiorentino diviene tra i favoriti della corte medicea. Nel 1475 dipinge uno stendardo per Giuliano de’ Medici, in occasione della celebre Giostra del Poliziano. A lui viene anche affidato l’incarico di ricordare la sventurata congiura dei Pazzi, dove ha trovato la morte lo stesso Giuliano: nel 1478, in Palazzo Bargello, effigia i congiurati impiccati. A quest’epoca risale uno dei suoi capolavori: la “
Primavera”, commissionato dai fratelli Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici. Botticelli è il prediletto di Lorenzo il Magnifico e partecipa alla fervente vita di corte, dove incontra le personalità più eminenti dell’umanesimo e fa proprie le concezioni neoplatoniche della cerchia d’intellettuali.

Giambattista Tiepolo (1696 - 1770)
E’ stato un pittore e incisore italiano della Repubblica di Venezia. Tra i suoi figli vi furono i pittori Giandomenico e Lorenzo Tiepolo. Il suo stile grandioso viene caratterizzandosi come sofisticato e iperbolico, in un senso tipicamente settecentesco; le scene da lui create evocano un mondo dilatato all'infinito e fittizio, reso da una tavolozza cromaticamente squillante e da una luce fredda e irreale, creata usando un tono argenteo che si riflette dagli oggetti come dalle figure, che perdono ogni consistenza plastica. 
http://it.wikipedia.org/wiki/Giambattista_Tiepolo

Piero della Francesca (1411 – 1492)
Pseudonimo del pittore Piero dei Franceschi che fu allievo di Domenico Veneziano e di Masaccio. Nel 1442, dopo un soggiorno a Firenze, Piero era di nuovo in patria, dove fu fatto consigliere del popolo; tre anni dopo vi riceve la prima commissione a noi nota, la pala della Madonna della Misericordia, ancora al Palazzo comunale. Verso quegli anni fece anche il Battesimo di Cristo (National Gallery, Londra) e il S. Girolamo (Galleria di Venezia), poi comincia il suo pellegrinaggio per le corti. Fu a Ferrara ma, dei suoi dipinti, a Palazzo Estense, non resta nulla. Nel 1451 la presenza di Piero a Rimini è attestata dalla data dell’affresco in cui Sigismondo Malatesta è ai piedi del suo santo protettore (Tempio Malatestiano). Per la corte di Urbino, dipinse poi la piccola Flagellazione. Alla morte di Bicci di Lorenzo (1452) ebbe inizio la grande impresa degli affreschi di S. Francesco ad Arezzo, con le Storie della Croce e solo nel 1466 si parla dell’opera come compiuta. Dopo tale data i suoi soggiorni al paese natale diventano sempre più frequenti. Fra le altre opere: la pala di S. Agostino, la Madonna del Porto, la Maddalena. Tra i suoi trattati di carattere teorico, il De prospectiva pingendi; il trattatello Dei cinque corpi regolari; un piccolo Abaco di sua mano si trova alla Biblioteca Laurenziana.

Andrea Mantegna (1431 - 1506) E’ stato un pittore e incisore italiano. Si formò nella bottega padovana dello Squarcione, dove maturò il gusto per la citazione archeologica; venne a contatto con le novità dei toscani di passaggio in città quali Fra Filippo Lippi, Paolo Uccello, Donatello, dai quali imparò una precisa applicazione della prospettiva. Mantegna si distinse infatti per la perfetta impaginazione spaziale, il gusto per il disegno nettamente delineato e per la forma monumentale delle figure. Il contatto con le opere di Piero della Francesca, avvenuto a Ferrara, marcò ancora di più i suoi risultati sullo studio prospettico tanto da raggiungere livelli "illusionistici", che saranno tipici di tutta la pittura nord-italiana. Sempre a Ferrara, poté conoscere il patetismo delle opere di Rogier van der Weyden rintracciabile nella sua pittura devozionale; attraverso la conoscenza delle opere di Giovanni Bellini, di cui sposò la sorella Nicolosia, le forme dei suoi personaggi si addolcirono, senza perdere monumentalità, e vennero inserite in scenografie più ariose. Costante in tutta la sua produzione fu il dialogo con la statuaria, sia coeva sia classica. A Padova Mantegna trovò inoltre un vivace clima umanistico e poté ricevere un'educazione classica, che arricchì con l'osservazione diretta di opere classiche, delle opere padovane di Donatello (in città dal 1443 al 1453) e la pratica del disegno con influssi fiorentini (tratto deciso e sicuro) e tedeschi (tendenza alla rappresentazione scultorea). La sensibilità verso il mondo classico e il gusto antiquario divennero presto una delle componenti fondamentali del suo linguaggio artistico, che si portò dietro durante tutta la carriera.
La Camera degli Sposi - Soffitto della Camera degli Sposi, Mantova >>>
Nel 1465 Mantegna iniziò una delle sue imprese decorative più complesse, alla quale è legata la sua fama. Si tratta della cosiddetta Camera degli Sposi, chiamata nei resoconti dell'epoca Camera picta, cioè "camera dipinta", terminata nel 1474. L'ambiente di dimensioni medio-piccole occupa il primo piano della torre nord-orientale del Castello di San Giorgio ed aveva la duplice funzione di sala delle udienze (dove il marchese trattava affari pubblici) e camera da letto di rappresentanza, dove Ludovico si riuniva coi familiari. Mantegna studiò una decorazione ad affresco che investiva tutte le pareti e le volte del soffitto, adeguandosi ai limiti architettonici dell'ambiente, ma al tempo stesso sfondando illusionisticamente le pareti con la pittura, che crea uno spazio dilatato ben oltre i limiti fisici della stanza. Motivo di raccordo tra le scene sulle pareti è il finto zoccolo marmoreo che gira tutt'intorno nella fascia inferiore, sul quale poggiano i pilastri che suddividono le scene. Alcuni tendaggi di broccato affrescati svelano le scene principali, che sembrano svolgersi oltre un loggiato. La volta è affrescata come se fosse sferoidale e presenta centralmente un oculo, da cui si sporgono fanciulle, putti, un pavone ed un vaso, che si stagliano sul cielo azzurro. Il tema generale è una straordinaria celebrazione politico-dinastica dell'intera famiglia Gonzaga, con l'occasione della celebrazione dell'elezione a cardinale di Francesco Gonzaga.   Sulla parete nord è ritratto il momento in cui Ludovico riceve la notizia dell'elezione: grande è l'attenzione ai particolari, alla verosimiglianza, all'esaltazione del lusso della corte. Sulla parete ovest è rappresentato l'incontro, avvenuto nei pressi della città di Bozzolo, tra il marchese e il figlio cardinale; la scena ha una certa fissità, determinata dalla staticità dei personaggi ritratti di profilo o di tre quarti per enfatizzare l'importanza del momento; sullo sfondo è presente una Roma idealizzata, come augurio per il Cardinale.

Duccio di Buoninsegna (1255 - 1318)
Pittore italiano, tradizionalmente indicato come il primo maestro della scuola senese.
Pannello della Crocefissione, Maestà, Opera del Duomo di Siena >>>
L'arte di Duccio aveva una solida componente bizantina, legata in particolare alla cultura più recente del periodo paleologo, e una notevole conoscenza di Cimabue, alle quali va aggiunta una rielaborazione personale in senso gotico, inteso come linearismo ed eleganza transalpini. Da Cimabue riprese l'impostazione delle figure monumentali e malinconiche, rendendole però con una linea morbida e una raffinata gamma cromatica. Non si aggiornò mai alla cultura tardo-antica, come fece Giotto, ma fece suoi i modelli orientali e nordici che aveva molto probabilmente avuto modo di vedere in opere trasportabili che facilmente circolavano in Toscana, quali codici miniati, libri di modelli, mosaici portatili, icone, avori ed oreficerie. Col tempo lo stile di Duccio raggiunse esiti di sempre maggiore naturalezza e morbidezza. Il 15 aprile 1285 gli venne commissionata la cosiddetta Madonna Rucellai, dalla Compagnia dei Laudesi per la chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, ora agli Uffizi. Venne detta "Rucellai" perché venne collocata nella cappella della famiglia Rucellai. In questa opera è raffigurata la Madonna col Bambino in maestà, fiancheggiati da sei angeli. L'opera si ispira alla Maestà del Louvre di Cimabue, dipinta circa 5 anni prima, tanto che a lungo venne creduta un'opera di Cimabue e tale errata attribuzione fu sostenuta a lungo, anche dopo il ritrovamento del documento di allogazione (1790). Questa "maestà" è un'opera chiave nel percorso dell'artista, dove la solida maestosità e l'umana rappresentazione di Cimabue viene incrociata con una maggiore aristocraticità, con un contenuto umano ancora più dolce. Inoltre vi immise un nervoso ritmo lineare, come sottolineato dal capriccioso orlo dorato della veste di Maria che disegna una complessa linea dal petto fino ai piedi. Degli stessi anni sono altre Madonne: quella del Museo di Buonconvento, quella della Galleria Sabauda di Torino, quella del Museo dell'Opera metropolitana del Duomo di Siena, proveniente dalla chiesa di Santa Cecilia a Crevole, quella con tre frati francescani, ora nella Pinacoteca nazionale. Risale al 1308-1311 il suo capolavoro, nonché una delle opere più emblematiche dell'arte italiana: la Maestà per l'altar maggiore del Duomo di Siena, che restò esposta nel Duomo, anche se fra vari ostamenti, fino al 1878, mentre oggi è conservata presso il Museo dell'Opera metropolitana del Duomo.  Finita nel giugno del 1311, era tale la sua fama già prima del completamento, che il giorno 9, dalla bottega di Duccio in contrada Stalloreggi, fu portata in Duomo con una festa popolare con tanto di processione: a capo di questa, il vescovo e le massime autorità cittadine, mentre il popolo, portando candele accese, cantava ed elargiva elemosine.Si tratta di una grande tavola (425x212 cm) a due facce, anche se oggi si presenta tagliata lungo lo spessore secondo un discutibile intervento ottocentesco che non mancò di creare alcuni danni. Il lato principale, quello originariamente rivolto ai fedeli, era dipinto con una monumentale Vergine con Bambino in trono, circondata da un'affollata teoria di santi e angeli su fondo oro. La Madonna è seduta su un ampio e sfarzoso trono, che accenna ad una spazialità tridimensionale secondo le novità già praticate da Cimabue, ed è dipinta con una cromia morbida, che dà naturalezza al dolce incarnato. Anche il bambino esprime una profonda tenerezza, ma il suo corpo non sembra generare peso e le mani di Maria che lo reggono sono piuttosto innaturali. Alla base del trono, sta la preghiera-firma in versi latini: "MATER S(AN)CTA DEI/SIS CAUSA SENIS REQUIEI/SIS DUCIO VITA/TE QUIA PINXIT ITA" (trad.:"Madre Santa di Dio, sii causa di pace per Siena, sii vita per Duccio, poiché ti ha dipinta così"). Il retro era invece destinato alla visione del clero, e vi sono rappresentate 26 Storie della Passione di Cristo, divise in formelle più piccole, uno dei più ampli cicli dedicati a questo tema in Italia. Il posto d'onore, al centro è dato dalla Crocefissione, di larghezza maggiore e altezza doppia, come anche la formella doppia nell'angolo in basso a sinistra con l' Entrata a Gerusalemme. In varie scene Duccio diede prova di essere aggiornato rispetto alle "prospettive" dei fondali architettonici di Giotto, ma in altre deroga volontariamente alla raffigurazione spaziale per mettere in risalto particolari che gli premono, come la tavola apparecchiata nella scena dell' Ultima cena (troppo inclinata rispetto al soffitto) o come il gesto di Ponzio Pilato nella Flagellazione, che è in primo piano rispetto a ua colonna nonostante i suoi piedi poggino su un piedistallo che è collocato dietro. Duccio non sembra quindi interessato a complicare eccessivamente le scene con regole spaziali assolute, anzi talvolta la narrazione è più efficace proprio in quelle scene dove un generico paesaggio roccioso tradizionale lo libera dalla costrizione della rappresentazione tridimensionale. La pala aveva anche una predella (la prima conosciuta nell'arte italiana) e a coronamento scene della Vita di Gesù e di Maria: queste parti non sono più a Siena ed alcune di esse si trovano al British Museum di Londra.

Cimabue (1240 circa - 1302)
Si hanno notizie di lui dal 1272. Dante lo citò come il maggiore della generazione antecedente a quella di Giotto. Il Vasari lo indicò come il primo pittore che si discostò dalla "scabrosa goffa e ordinaria [...] maniera greca", ritrovando il principio del disegno verosimile "alla latina".  Le notizie certe, ossia suffragate da documenti, sulla vita di Cimabue sono molto esigue: presente a Roma nel 1272; incaricato di realizzare un cartone per il mosaico del catino absidale del Duomo di Pisa nel 1301; morto a Pisa nel 1302. Da queste pochissime informazioni i critici e gli storici dell'arte hanno ricostruito, non senza controversie e incertezze, il catalogo delle opere.  Probabilmente la sua formazione si svolse a Firenze, tra maestri di cultura bizantina. Già con la Crocefissione della chiesa di San Domenico di Arezzo, databile attorno al 1270, e assegnato al suo catalogo da Pietro Toesca, segnò un distacco dalla maniera bizantina. In questa opera Cimabue si orientò verso le recenti rappresentazioni della Crocefissione con il Christus patiens dipinte verso il 1250 da Giunta Pisano, ma aggiornò l'iconografia arcuando ancora maggiormente il corpo del Cristo, che ormai debordava occupando tutta la fascia alla sinistra della croce. Sempre ai modelli di Giunta rimandano le due figure nei tabelloni ai lati dei braccio della croce (Maria e San Giovanni raffigurati a mezzo busto in posizione di compianto) e lo stile asciutto, quasi "calligrafico" della resa anatomica del corpo del Cristo. Un'altra novità rispetto al modello fu l'uso delle striature d'oro nel panneggio che copre il corpo di Cristo o nelle vesti dei due dolenti, un motivo usato per la prima volta, pare, da Coppo di Marcovaldo e derivato dalle icone bizantine.Poco dopo il viaggio a Roma del 1272, eseguì il Crocifisso per la chiesa fiorentina di Santa Croce, oggi semidistrutto a causa dell'alluvione di Firenze del 1966. Quest'opera si presenta dall'apparenza simile al Crocifisso aretino, ma a un'analisi attenta lo stile pittorico è molto migliorato, tanto da suggerire che sia stato eseguito un decennio dopo, intorno al 1280. Alto tre metri e 90 è un crocifisso grandioso, con la posa del Cristo ancora maggiormente sinuosa, ma è soprattutto la resa pittorica delicatamente sfumata a rappresentare una rivoluzione, con un naturalismo commovente e privo di quelle dure pennellate grafiche che si riscontrano nel crocifisso aretino. La luce adesso è calcolata e modella con il chiaroscuro un volume realistico: i chiari colori dell'addome, girato verso l'ipotetica fonte di luce, non sono gli stessi del costato e delle spalle, sapientemente rappresentati come illuminati con un angolo di luce diverso. Le ombre, appena accennate su pieghe profonde come quelle dei gomiti, sono più scure nei solchi tra la testa e la spalla, sul fianco, tra le gambe. Un vero esempio di virtuosismo è poi la resa del morbido panneggio, delicatamente trasparente. Dopo secoli di aspri colori pastosi Cimabue fu quindi il primo a stendere morbide sfumature. 
La Maestà del Louvre, 1280 circa, 276x424 cm, già a Pisa, oggi al Louvre, Parigi
Cimabue anche nell'iconografia tradizionale della Madonna col bambino stabilì un nuovo canone con il quale si dovettero confrontare i pittori successivi, soprattutto Giotto. Verso il 1280 eseguì la Madonna con il Bambino o Maestà del Louvre, proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa. In questa opera è amplificata la maestosità, tramite un più ampio campo attorno alla Madonna e migliore è la resa naturalistica, pur senza concessioni al sentimentalismo (Madonna e bambino non si guardano e le loro mani non si toccano). Il trono è disegnato con un'assonometria intuitiva e quindi collocato precisamente nello spazio, anche se gli angeli sono disposti ritmicamente attorno alla divinità secondo precisi schemi di ritmo e simmetria, senza interesse ad una reale disposizione nello spazio, infatti levitano l'uno sopra l'altro (non l'uno dietro l'altro). Molto fine è il modo con cui i panneggi avvolgono il corpo delle figure, soprattutto della Madonna, che crea un realistico volume fisico.

Giovanni Bellini (1433 circa - 1516)Pittore italiano, uno dei più celebri del Rinascimento, famoso anche con il nome Giambellino. La vita di Giovanni Bellini, sebbene ritenuto fin dai contemporanei una figura di eccezionale grandezza, è relativamente poco documentata e anche numerose sue opere capitali sfuggono a un inquadramento definitivo per la scarsità di notizie sicure pervenuteci. Gli esordi di Giovanni nell'arte sono incerti e dovrebbero collocarsi negli anni 1445-1450, sebbene nessuna opera conosciuta dell'artista sia unanimemente attribuita a quel periodo dagli storici. Tra le candidate un tempo più probabili c'erano un San Girolamo al Barber Institute di Birmingham e una Crocifissione del Museo Poldi Pezzoli che la critica più recente tende invece ad attribuire alla generica produzione veneziana della prima metà del Quattrocento. Le prime prove del giovane Giovanni dovevano però avere caratteri "asprigni", legati all'esempio della bottega paterna e di quella dei Vivarini, le due più importanti fucine pittoriche nella Venezia del tempo. Ciò non significa però che l'artista lavorasse già da solo, almeno per le grandi commissioni, infatti una testimonianza di Fra Valerio Polidoro del 1460 rileva la firma a tre mani, con Jacopo e Gentile, della perduta pala Gattamelata per la basilica del Santo a Padova, destinata a una nuova cappella dedicata ai santi Bernardino e Francesco.
Poco dopo o poco prima il 1460 Giovanni dovette avviare la serie delle Madonne col Bambino, che caratterizzò come tema tutta la sua carriera. Si tratta di una serie di immagini di dimensioni piccole e medio-piccole destinate alla devozione privata, frequentissime nella produzione lagunare del XV secolo. Si tratta di opere come la Madonna col Bambino del Civico museo Malaspina di Pavia, quella di Filadelfia la Madonna Lehman a New York e la cosiddetta Madonna greca della Pinacoteca di Brera a Milano.
In queste opere si leggono influssi allora ben vivi a Venezia, grazie al raggio delle sue attività mercantili, quali quello bizantino, con al fissità iconica delle divinità, e quello fiammingo, con la sua attenziona analitica al dettaglio. Inoltre Giovanni fu influenzato dalla scuola toscana filtrata in Veneto in quegli anni dalla decennale presenza di Donatello a Padova (1443-1453) e dall'esempio di Andrea Mantegna. La prima produzione di Bellini ha anche caratteristiche proprie, date da "una peculiare e dolcissima tensione che sempre lega madre e figlio in un rapporto di pathos profondo. Se i modelli compositivi riprendono quelli delle icone bizantine e cretesi, ripresi in alcuni casi con estrema fedeltà, radicale fu la reinvenzione di tali immobili stereotipi in figure vive e poetiche, capaci di instaurare un intimo rapporto con lo spettatore. L'altro tema che si intrecciò per tutta la carriera del pittore, fin dagli esordi, è quello della Pietà. Anche questa iconografia si ispirava a modelli bizantini, l'imago pietatis. I prototipi della serie sono la Pietà dell'Accademia Carrara di Bergamo e quella del Museo Poldi Pezzoli, databili tra gli anni cinquanta e sessanta, a cui seguirono il Cristo morto sorretto da due angeli del Museo Correr, con influssi mantegneschi, la Pietà celebre della Pinacoteca di Brera (1465-1470 circa).

Paolo Veneziano (circa 1300 – circa 1365) È stato definito "il più importante pittore del XIV secolo" e il precursore della pittura veneta, che ha inizio nel Trecento. Si inserì nel dialogo tra i movimenti pittorici dell’epoca realizzando un equilibrio unico tra i temi suggestivi bizantini della sua formazione e l'influenza di Giotto. Nacque da una famiglia di artisti e lavorò con i suoi figli Marco, Luca e Giovanni. Fu il pittore ufficiale di Andrea Dandolo, per il quale dipinse la Pala Feriale. La prima opera certa del Veneziano è il polittico con la Dormitio Virginis datata 1333, conservata presso i Musei Civici di Vicenza. 
Dal 1340 le sue opere rivelano un inizio di cesura col mondo bizantino e l’emergere di maggiori tendenze gotiche. Si vedano ad esempio le cadenze delle vesti e l'espressività dei volti di alcune sue opere quali:
• Madonna in trono (1340, presso la collezione Crespi a Milano)
• dossale della Pala d'oro della basilica di San Marco (Venezia)
Nel museo liturgico del Duomo di Caorle sono conservate sei tavole raffiguranti apostoli (che costituivano l'antica iconostasi) attribuite a Paolo Veneziano ed alla sua scuola. A partire dal 1347 è di rilievo la sua produzione di mosaici (ad esempio visibili nella cappella Dandolo nel battistero di San Marco), ma anche delle pale d'altare (bellissima la Madonna in trono, visibile nella parrocchiale di Carpineta e l’Incoronazione, attualmente parte della collezione Frick a New York) e infine dei polittici (di rilievo quello a San Giacomo in Bologna e nelle Gallerie dell'Accademia a Venezia).

Jacopo Robusti, chiamato Tintoretto (1518 – 1594)
Pittore italiano, uno dei più grandi esponenti della scuola veneziana e probabilmente l'ultimo grande pittore del Rinascimento italiano. Il soprannome di "Tintoretto" gli derivò dal mestiere paterno, tintore di stoffe. "Robusti" è in realtà un soprannome ereditato dal padre, il quale, durante la guerra della Lega di Cambrai aveva energicamente difeso le porte di Padova contro le truppe imperiali. Per la sua energia fenomenale nella pittura è stato soprannominato "Il Furioso" ed il suo uso drammatico della prospettiva e della luce lo ha fatto considerare il precursore dell'arte barocca. Il padre Giovanni Battista lavorava nel campo della tintura della seta, non si sa se a livello artigianale o commerciale: probabilmente era originario di Lucca, dato che quest'arte era stata importata a Venezia nel XIV secolo proprio dai lucchesi. Quest'ascendenza spiegherebbe l'interesse dell'artista verso i suoi "colleghi" toscani, come Michelangelo, Raffaello e Giulio Romano: Tintoretto conobbe le loro opere attraverso la diffusione delle stampe, mentre è sicuro che dal vero vide gli affreschi del Romano a Palazzo Te a Mantova. Sembra che Battista facesse parte dei "cittadini", ovvero quei veneziani non nobili che pure godevano di certi privilegi: grazie a questa posizione di un certo privilegio, Jacopo fu in buoni rapporti con l'elite veneziana e ottenne l'appoggio dei patrizi. Jacopo non nascondeva le proprie origini, anzi, nei suoi dipinti si firmava come "Jacobus Tentorettus" (Ritratto di Jacopo Sansovino, 1546) o "Jacomo Tentor" (Il miracolo di San Marco che libera lo schiavo, 1547-48).  
Dell'infanzia del pittore si sa ben poco in quanto non esistono documenti che attestino gli studi effettuati. Tintoretto, ancora fanciullo, usava i colori del laboratorio del padre per dipingere le pareti del laboratorio: per assecondare l'inclinazione del figlio, Battista gli trovò un posto come apprendista presso la bottega di Tiziano, nel 1530. Questo apprendistato durò solo pochi giorni: sembra che Tiziano, veduto un disegno dell'allievo, per il timore che il promettente allievo diventasse un pericoloso rivale, lo fece cacciare da Girolamo, uno dei suoi collaboratori. La prima commissione gli giunse da Vettor Pisani, nobile con legami di parentela con Andrea Gritti e titolare di una banca, intorno al 1541: in occasione delle nozze fece restaurare la propria residenza presso San Paterniàn e affidò al giovane Tintoretto, ventitreenne, la realizzazione di 16 tavole che illustrassero le Metamorfosi di Ovidio. I dipinti sarebbero stati collocati sul soffitto e Pisani richiese che avessero la potente prospettiva dei dipinti di Giulio Romano a Mantova: Tintoretto si recò di persona a Palazzo Te, probabilmente a spese del suo committente. Si pensa che Tintoretto avesse cercato un contratto con la Scuola Grande di San Marco nel 1542, quando venne commissionata la decorazione della sala capitolare: all'artista vennero preferiti dei decoratori, che avrebbero impiegato meno tempo per la realizzazione delle opere richieste. Cinque anni dopo, Marco Episcopi, padre della promessa sposa dell'artista, venne nominato guardian da matin e questo facilitò una commissione favorevole per Jacopo. Episcopi era figlio di Pietro, farmacista a campo Santo Stefano, che aveva delle proprietà date in affitto a tintori di sete e velluti: per questo, o per il semplice fatto che in qualità di farmacista commerciasse anche pigmenti, si suppone che avesse dei contatti con Battista Robusti.Nell'aprile del 1548, venne collocata, sulla parete rivolta verso campo Santi Giovanni e Paolo, tela raffigurante Il miracolo di San Marco: subito Tintoretto ricevette le lodi dell'Aretino.« (...) le cere, l'arie e le viste de le turbe, che la circondano, sono tanto simili agli effetti ch'esse fanno in tale opera, che lo spettacolo pare più tosto vero che finto » (Pietro Aretino)
Nel frattempo, nel 1547, Tintoretto si trasferì nella parrocchia di Santa Maria dell'Orto: qui iniziò l’intenzione di rinnovarla. Realizzò così diverse opere, che vanno dalla decorazione dell'organo con la Presentazione di Maria al Tempio, alla Cappella Contarini, ultimata nel 1563: collaborò anche con i fratelli Cristoforo e Stefano Rosa, che si occuparono del soffitto trompe-l'oeil in legno, in cui Tintoretto inserì dipinti raffiguranti episodi dell'Antico Testamento e, nel cleristorio, dodici nicchie contenenti ritratti di profeti e sibille, aperto riferimento alla Cappella Sistina di Michelangelo. La maggior parte di queste opere andò perduta durante il restauro in stile neogotico del XIX secolo.  Per ottenere questa commissione, Tintoretto chiese un pagamento che poteva coprire a malapena le spese dei materiali: è però probabile che un successivo compenso gli giunse dalla famiglia Grimani, che aveva una cappella all'interno della chiesa. I rapporti con la Scuola grande di San Marco continuano fino al 1566 circa, con l'esecuzione di altre tre tele raffiguranti miracoli postumi del santo: San Marco salva un saraceno durante un naufragio, Trafugamento del corpo di San Marco e Ritrovamento del corpo di San Marco. Questi dipinti furono pagati dall'allora Guardian Grande della Scuola, Tommaso Rangone: il lavoro fu terminato presumibilmente nel 1566, data in cui il Vasari annota di averli visti. A queste tele si aggiungono anche dei dipinti murali, raffiguranti i sette Vizi e le sette Virtù, di cui, però, non resta traccia. Conclusi per il momento i rapporti con la Scuola Grande di San Marco, il pittore ottenne un incarico importante per l'Albergo della Scuola della Trinità, una confraternita minore: l'edificio si trovava dove ora sorge la chiesa di Santa Maria della Salute. Inizialmente, la commissione era stata affidata a Francesco Torbido: non si conosce il motivo della rescissione del contratto, ma si può supporre che sia stato preferito Tintoretto per un'offerta più vantaggiosa, come egli era solito procurarsi le commissioni.
Per l'Albergo della Scuola, tra il 1551 e il 1552, eseguì un ciclo di dipinti ispirati alle storie della Genesi, tra cui la Creazione degli animali, il Peccato originale e Caino e Abele: nell’ideazione delle composizioni, prese spunto da opere di artisti contemporanei, come Tiziano e il suo collaboratore Girolamo Tessari, o del passato di Venezia, come Vittore Carpaccio e le sue Storie di Sant'Orsola. Il dipinto del Peccato originale influenzerà in seguito un artista come Giambattista Tiepolo.

Giovanni Francesco Barbieri, soprannominato il Guercino (1591 – 1666) >>>
Pittore Italiano nato a Cento, paese allora appartenente al Ducato di Ferrara, da Andrea Barbieri ed Elena Ghisellini, una famiglia di modesta condizione che abitava a pigione «in una piccola casa fuori di Cento, non lontana che pochi passi dalla Porta detta della Chiusa». Il soprannome di Guercino dovette essergli aggiunto molto presto, se è vero quel che narra lo stesso biografo, raccogliendo la tradizione, che «essendo ancora in fasce, occorse che un giorno, mentre egli dormiva [ ... ] ci fu chi vicino a lui proruppe d'improvviso in grido così smoderato e strano che il fanciullo, svegliatosi pieno di spavento, diedesi a stralunar gli occhi [ ... ] per siffatta guisa, che la pupilla dell'occhio destro gli rimase travolta e ferma per sempre nella parte angolare». Naturalmente, il suo strabismo non fu certamente provocato da questo presunto episodio: piuttosto, il suo difetto può avere influenzato la sua resa pittorica delle forme nello spazio.
Mostrò a sei anni una particolare inclinazione per il disegno e a otto anni, «senza avere avuto maestro alcuno, e soltanto sulla scorta d'una immagine in stampa, egli dipinse una «Madonna di Reggio» sulla facciata della casa dove abitava»  che si poté vedere fino a quando, due secoli dopo, la casa fu demolita. Assecondando le tendenze del figlio, il padre lo mandò a studiare, verso il 1600, nel vicino paese di Bastia, da un modesto artista, chiamato Bartolomeo Bertozzi, che «dipingeva a guazzo», nella cui casa si stabilì per alcuni mesi, potendovi apprendere, commentano i biografi, solo la conoscenza e la mescolanza dei colori.
Considerando che il figliolo mostrava un talento che tuttavia occorreva educare e rafforzare, nel 1607 il padre lo affidò a un «pittore tollerabile» di Cento, Benedetto Gennari senior, che lo tenne con sé, corrispondendogli anche «annualmente certa poca moneta come per regalo»  affidandolo poi, verso il 1609, per maggiore e migliore istruzione, a Bologna, prima «a dozzina per una soma di grano e una castellata di vino, in casa di Paolo Zagnoni, pittore di poca levata» e poi da Giovan Battista Cremonini, «pittore di qualche merito e veloce e pratico nel dipignere, massime a fresco, e prestamente ancora insegnava a' scolari, onde il nostro Barbieri molto profittò in breve tempo». Il soggiorno bolognese fu tanto più proficuo in quanto permise al giovane apprendista di studiare le opere di valore lì conservate e, fra le moderne, quelle dei Carracci. Egli stesso dirà anni dopo di aver tratto profitto dallo studio della Conversione di Paolo di Ludovico Carracci, allora nella chiesa di San Francesco, e d'un'altra sua tela, una Madonna con Bambino e santi, allora conservata nella chiesa dei Cappuccini a Cento, che l'adolescente Guercino chiamava «la sua Carraccina», ossia «la sua cara zinna»,  dalla quale avrebbe tratto il latte dell'arte, e non si stancava di osservare, arrampicandosi su una scala per studiarla da vicino.

Pietro di Cristoforo Vannucci, noto come il Perugino (1450 - 1523)Pittore italiano titolare in contemporanea di due attivissime botteghe, a Firenze e a Perugia, fu per un paio di decenni il più noto e influente pittore italiano. Fuse insieme la luce e la monumentalità di Piero della Francesca con il naturalismo e i modi lineari di Andrea del Verrocchio, filtrandoli attraverso i modi gentili della pittura umbra. Fu maestro di Raffaello.
Madonna Gambier Parry, 1470 circa - Adorazione dei Magi, 1470-1476 circa
Non si conosce alcuna produzione giovanile nella sua cittadina di origine. La sua formazione, dopo un primo contatto con la realtà artistica perugina, avvenne con lo studio delle maggiori opere di Piero della Francesca. Perugia dopotutto, nella seconda metà del Quattrocento, viveva una vitale stagione artistica, con cospicue somme di denaro che alimentavano importanti opere sia pubbliche che private. Lavorarono a Perugia in quegli anni, oltre a Piero, Domenico Veneziano, Beato Angelico e Benozzo Gozzoli. Sulla scia di questi esempi i pittori locali, tra i quali spiccava Benedetto Bonfigli, avevano sviluppato una pittura luminosa e ornata, oltre che narrativamente scorrevole e, grazie all'esempio di Piero (che aveva lasciato nel 1459-1468 il Polittico di Sant'Antonio), attenta all'integrazione tra architettura rigorosa e personaggi. Le prime esperienze artistiche umbre di Pietro Vannucci si appoggiarono probabilmente a botteghe locali come quelle di Bartolomeo Caporali e Fiorenzo di Lorenzo. Ma fu solo a Firenze, dove forse si recò fin dagli anni 1467-1468, che l'artista ebbe gli insegnamenti decisivi che condizionarono le sue prime prove artistiche. Nel 1469 un primo documento lo ricorda come di ritorno a Città della Pieve per pagare la tassa del vino dopo la morte del padre. Subito dopo dovette tornare a Firenze, dove, secondo la testimonianza di Vasari, lavorò nella più importante fucina di giovani talenti allora esistenti, la bottega di Andrea Verrocchio, dove si praticava la pittura, la scultura e l'oreficeria. Qui ebbe modo di lavorare fianco a fianco con giovani talenti quali Leonardo da Vinci, Domenico Ghirlandaio, Lorenzo di Credi, Filippino Lippi e, soprattutto il poco più che coetaneo Botticelli, che l'Anonimo Magliabechiano (1540 circa) citò, forse con troppa enfasi, come diretto maestro di Perugino. La fomazione artistica a Firenze allora si basava soprattutto sull'esercizio del disegno dal vero, ritenuto un'attività fondamentale a qualsiasi pratica artistica, che richiedeva approfonditi studi anatomici, spesso con lo studio diretto di cadaveri scorticati. Per l'assidua attenzione agli aspetti grafici, la scuola fiorentina dell'epoca era molto attenta alla linea di contorno, che veniva leggermente marcata, come nelle opere dei fratelli Pollaiolo o di Verrocchio stesso.Nel 1472 l'apprendistato, che negli statuti delle arti dell'epoca veniva indicato come non inferiore ai nove anni, era concluso, poiché il Perugino si iscrisse alla Compagnia di San Luca a Firenze col titolo di "dipintore", quindi in grado di esercitare in maniera autonoma.
Beato Angelico  (fine 300 - 1455) >>>
Guido di Pietro, nome laico di fra’ Giovanni da Fiesole, nasce a Vicchio del Mugello sul finire del Trecento. A lungo la storia dell’arte ha creduto che egli fosse nato nel 1387, data smentita dal ritrovamento di un documento del 1417, che lo vede “dipintore” nel “popolo” di San Michele Visdomini, a Firenze. All’epoca egli non ha ancora abbracciato la vita religiosa, ma già dipinge. Negli anni successivi alla sua morte, la vita d’uomo di chiesa, la sua devozione per l’arte religiosa hanno portato i posteri a definirlo Angelico e poi Beato, sebbene non per la Chiesa ufficiale (almeno fino al 1983 – 84). Stabilire la nascita sul finire del secolo, ha permesso di inquadrare in modo più coerente la sua formazione artistica. Beato Angelico si forma in ambiente fiorentino, nella compagine culturale impegnata nelle dissertazioni sulla prospettiva del Brunelleschi e del Donatello. La prima notizia dell’attività sua di pittore è del 1418, tramite il pagamento d’una tavola affrescata per la cappella in Santo Stefano al Ponte. Nel 1423 Guido ha preso i voti e, con il nome di fra’ Giovanni, risulta impegnato nell’affresco di una croce per l’ospedale di Santa Maria Nuova. Nel convento di San Domenico a Fiesole, fra’ Giovanni è molto attivo. Dipinge assiduamente con l’aiuto di scolari, tra i quali anche Zanobi Strozzi. Le sue opere abbelliscono le maggiori chiese fiorentine, molte tele gli vengono commissionate da privati. Il Vasari, nella sua biografia, loda la vita esemplare ed il disinteresse che anima la sua arte, tanto che ogni guadagno va a favore del convento. Nel 1429 un documento d’atteso pagamento testimonia il suo lavoro per le monache di San Pietro. Nel 1433 è a Brescia, dove attende ad una “Annunciazione” per Sant’Alessandro. Lo stesso anno gli viene commissionata, per 190 fiorini, la realizzazione di un tabernacolo per l’Arte dei Linaioli. Nel 1436 sembra che egli realizzi la “Deposizione” per Santa Maria al Tempio, mentre l’anno seguente è la volta di un trittico in una chiesa di Perugia. Agli stessi anni si fa risalire la decorazione con affreschi della chiesa di San Marco, passata al convento dei Domenicani e consacrata da Papa Eugenio IV nel 1443, mentre i lavori sono ancora in corso. L’opera finisce probabilmente nel 1446, anno nel quale fra’ Giovanni viene chiamato dal papa a lavorare a Roma. Qui dipinge una cappella in Vaticano, oggi perduta, e - sotto il successore di Eugenio IV, Niccolò V - la Cappella Niccolina.
Prima di rientrare a Fiesole, con l’importante incarico di priore, trascorre del tempo ad Orvieto, dove inizia i lavori nella Cappella di San Brizio nel Duomo, lasciati incompiuti. Tra il 1449 e il 1451 è, dunque, priore di San Domenico a Fiesole. Il Vasari riferisce, inoltre, che gli fosse stato prospettato l’incarico di arcivescovo di Firenze, declinato dall’Angelico per modestia. E’ probabile che, pochi anni prima di morire, si sia trasferito a Roma per altri lavori. Ivi difatti si spegne, nel convento di Santa Maria sopra Minerva, nel 1455.
Ludovico Carracci (1555 – 1619)  >>>Pittore italiano, cugino dei fratelli Agostino e Annibale Carracci. Nato a Bologna nel 1555 si formò presso Prospero Fontana, viaggiando a Firenze, Parma, Mantova, Venezia e venendo a contatto con Camillo Procaccini. È il più anziano esponente della famiglia dei Carracci, cugino di Annibale. Predilige la pittura religiosa finalizzata alla moralizzazione e come stimolo devozionale. Prima del 1584, oltre all'iscrizione alla Compagnia dei Pittori, gli possono essere attribuite lo Sposalizio mistico di santa Caterina, ora in collezione privata, San Vincenzo in adorazione della Vergine e del Bambino, al Credito Romagnolo di Bologna e San Francesco in adorazione del Crocifisso, conservato alla Pinacoteca Capitolina di Roma, in questi la sua attenzione viene rivolta alla pittura del Parmigianino. Nel 1584 partecipa alla decorazione del bolognese Palazzo Fava insieme ad Annibale e ad Agostino. Tra le sue opere principali in questi anni si annoverano: Il Battesimo di Cristo, il San Francesco della Galleria Capitolina e il Matrimonio mistico. Nelle prime opere come: l' Annunciazione del 1585 circa, ora alla Pinacoteca Nazionale di Bologna e la Visione di san Francesco del Rijksmuseum di Amsterdam, si riscontra l'influenza di Bartolomeo Cesi e dell'opera di Federico Barocci, oltre alle crisi morali del Carracci di fronte alle disposizioni diffuse dalla Controriforma. Del 1587 è la Conversione di san Paolo; datata al 1588 è la Madonna dei Bargellini, coeva è l'Assunzione e la Trasfigurazione, ora in collezione privata; successiva è la Madonna degli Scalzi e del 1591 è la Sacra Famiglia con san Francesco, ora a Cento. Tra il 1590 e il 1592, lavorò sempre con Agostino e Annibale al fregio di Palazzo Magnani; dello stesso periodo è la Flagellazione di Cristo, ora conservato a Douai al Museo della Certosa e del 1592 la Predicazione del Battista della Pinacoteca Nazionale di Bologna. Tra il 1604 e il 1605 lavorò a una serie di affreschi, in collaborazione con gli allievi, tra cui Guido Reni, nel chiostro di San Michele in Bosco, oggi molto rovinati. Nel 1607 e 1608 è a Piacenza dove eseguì gli affreschi nel coro del Duomo e nel palazzo arcivescovile. Nel 1612 Maffeo Barberini gli commissionò per la sua cappella gentilizia nella chiesa di Sant'Andrea della Valle a Roma il San Sebastiano gettato nella cloaca massima, ora al Getty Museum. Del 1614 è la Crocifissione nella chiesa di Santa Francesca Romana a Ferrara. Anche l'ultima fase del Carracci evidenziò una pregevole qualità espressiva e morale, caratterizzata da un impianto formale pre-romantico polemico nei confronti delle nuove spinte barocche e da un tessuto cromatico basso.

Guido Reni (1575 - 1642)
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Pittore e incisore italiano, fra i maggiori del Seicento. Nasce a Bologna, nell'attuale Palazzo Ariosti di via San Felice 3, da Daniele, musicista e maestro della Cappella di San Petronio, e da Ginevra Pozzi; è battezzato il 7 novembre nella chiesa di San Pietro. Un'erronea tradizione che risale alla fine del Settecento lo fa nascere a Calvenzano (Vergato), nell'Appennino bolognese. Nel 1584, a dire dello storico Carlo Cesare Malvasia, che conobbe in vita il pittore, abbandona gli studi di musica, a cui era stato avviato dal padre, per entrare nell'avviata bottega bolognese del pittore fiammingo Denijs Calvaert, amico del padre, che lo impegna a tenerlo con sé per dieci anni. Ha per compagni di apprendistato pittori destinati a grande successo come Francesco Albani e il Domenichino; studia Raffaello, del quale copia più volte l'Estasi di Santa Cecilia, e le incisioni del Dürer. Morto il padre (1594), Guido lascia la bottega del Calvaert per aderire all'Accademia del Naturale, scuola di pittura fondata dai Carracci nel 1582, che si trasformerà nel 1599 nell'Accademia degli Incamminati. Qui mostra il suo talento tanto che il Malvasia riferisce l'improbabile aneddoto del suggerimento dato da Annibale a Ludovico Carracci, di non gl'insegnar tanto a costui, che un giorno ne saprà più di tutti noi. Non vedi tu come non mai contento, egli cerca cose nuove? Raccordati, Lodovico, che costui un giorno ti vuol far sospirare. Nel 1598 è già pittore indipendente e dipinge l' Incoronazione della Vergine e quattro santi, oggi nella Pinacoteca di Bologna, per la chiesa di San Bernardo, e vince la gara, in concorso con Ludovico Carracci, per la decorazione della facciata del Palazzo del Reggimento, l'attuale palazzo municipale di Bologna: gli affreschi, commissionati per onorare la visita di papa Clemente VIII e rappresentanti figure allegoriche, si erano già cancellati nell'Ottocento. Sono contemporanee le tele della Madonna col Bambino, san Domenico e i Misteri del Rosario della Basilica di San Luca, la Resurrezione di San Domenico e l'Assunzione della Vergine della parrocchiale di Pieve di Cento. Il 5 dicembre 1599 fa parte del Consiglio della Congregazione dei pittori di Bologna.
Sansone vittorioso (1611), Pinacoteca Nazionale, Bologna
Forse già nel 1600 ma certamente nel 1601 è a Roma, dove l'11 ottobre viene pagato dal cardinale Sfrondato per il suo Martirio di santa Cecilia della Basilica di Santa Cecilia in Trastevere: per lo stesso committente e la stessa chiesa esegue anche l' Incoronazione dei santi Cecilia e Valeriano e, copia del noto dipinto di Raffaello, la Santa Cecilia con quattro santi, ora conservata nella chiesa di San Luigi dei Francesi.  Viaggia da Bologna a Roma e di qui a Loreto, per trattare delle eventuali decorazioni della Santa Casa che verranno però affidate al Pomarancio; a Loreto, comunque, vede gli affreschi di Melozzo, le cui opere aveva probabilmente già conosciuto a Roma e, di passaggio, a Forlì. Delle soluzioni melozziane terrà conto nei suoi lavori: si pensi alla prospettiva degli affreschi del Duomo di Ravenna. Nel 1605 completa La crocefissione di san Pietro, per la chiesa romana di San Paolo alle Tre Fontane, ma ora nella Pinacoteca Vaticana, commissionatagli dal cardinale Pietro Aldobrandini. Per il Malvasia sarebbe stato il Cavalier d'Arpino a suggerire l'emulazione del soggetto, derivato dalla tela caravaggesca in Santa Maria del Popolo, allo scopo di danneggiare il Caravaggio nei favori dei committenti. Ne riproduce in parte i contrasti di luce ma vi toglie il dramma: la sua crocefissione è la rappresentazione di un tranquillo lavoro di artigiani, che rovesciano un santo rassegnato sulla croce e lo legano e l'inchiodano con gesti lenti e metodici. È la sua ricerca del bello ideale, ricavato dal classicismo raffaellesco nella mediazione dei Carracci che sfiora soltanto la visione naturalistica di Caravaggio ma se ne allontana per la necessità di ammantarla di "decoro"; di questa esperienza, nel primo decennio del secolo, sono parte il Davide con la testa di Golia del Louvre, il Martirio di santa Caterina per la chiesa di Sant'Alessandro a Conscente, ora al Museo diocesano di Albenga in Liguria, La preghiera nell'orto di Sens e L'incoronazione della Vergine di Londra.
Domenico Zampieri detto il Domenichino (1581 – 1641)La caccia di Diana, 1617, Roma, Galleria Borghese >>>Pittore italiano fervente fautore del classicismo, nei suoi dipinti, dove il disegno, appreso da Ludovico Carracci, assume un ruolo preponderante, tende a realizzare composizioni di semplicità e chiarezza narrativa, trasfigurate in un'ideale di bellezza classica. Si è detto che fosse chiamato Domenichino per la piccola statura, è più probabile che il nomignolo si riferisse alla sua ingenuità e alla morbosa timidezza della sua indole. Figlio del calzolaio Giovan Pietro e di Valeria, dapprima si dedica a studi umanistici, di grammatica e retorica, ma mostra subito tali interessi artistici che il padre gli permette di frequentare un apprendistato nell'atelier bolognese di Denijs Calvaert insieme col fratello maggiore – che rinuncerà bel presto alla pittura per tornare nella bottega paterna. Domenico ha per compagni di studio Guido Reni e Francesco Albani, col quale si lega di fraterna amicizia e ne condivide gli ideali classici.Quando il collerico Calvaert lo sorprende a copiare stampe di Agostino Carracci, lo caccia dalla bottega nel 1595 e Domenichino trova accoglienza nell'Accademia degli Incamminati retta, in assenza di Annibale Carracci allora operoso a Roma, da Agostino e Ludovico Carracci; insieme con Ludovico, col Reni e l'Albani, collabora alle decorazioni dell'oratorio di San Colombano, presso Bologna, realizzando la Deposizione nel sepolcro. Nel 1601 lascia Bologna per trasferirsi a Roma, insieme all'amico Francesco Albani, per studiare le opere di Raffaello e collaborare con Annibale Carracci, al tempo forse il più apprezzato pittore operante a Roma. La data «A dí 12 aprile 1603 in Roma», appare nel suo Ritratto di giovane del museo di Darmstadt, dove un giovane, vestito di nero e col cappello serrato sul petto, è inquadrato dagli stipiti di una porta contro il paesaggio che si apre sulla campagna, benché in passato fosse considerato un autoritratto, non corrisponde ai tratti somatici dell'artista descritti nelle fonti letterarie, forse si tratta del ritratto di Antonio Carraci, figlio di Agostino. Dello stesso anno sono anche il Cristo alla colonna della raccolta Hazlitt di Londra e la Pietà di Brocklesby Park, in Gran Bretagna. Domenichino si dedica soprattutto all'affresco: grazie al cardinale Girolamo Agucchi, ottiene la prima commissione pubblica a Roma per i tre affreschi nella chiesa di Sant'Onofrio (1604-1605); per i Farnese partecipa ai lavori di completamento della decorazione della Galleria di Palazzo Farnese (1604-1605) dipingendo la Fanciulla e l'unicorno (1604 – 1605) per la serie degli Amori degli dei, e tre paesaggi mitologici, tra cui La morte di Adone, nella Loggia del Giardino; inizia nel 1608 l'affresco con la Flagellazione di sant'Andrea nell'oratorio della chiesa di San Gregorio al Celio, dove inserisce le piccole figure in una piazza romana chiusa da un muro e dalle colonne di un tempio con nello sfondo a sinistra una città antica e collabora con l'Albani alle decorazioni di Palazzo Mattei a Roma, affrescando una Rachele al pozzo. Intorno al 1610 dipinge, eccezionalmente su tavola, il Paesaggio con san Girolamo, ora nella Glasgow Art Gallery. La figura del leone, secondo la leggenda guarito da Girolamo, è derivata da una xilografia di Tiziano, confermando l'attenzione per l'arte veneziana nella pittura di paesaggio dei Carracci e di Domenichino. Le prime commissioni indipendenti arrivano all'inizio del secondo decennio del secolo, con la decorazione, commissionatagli da Pierre Polet, della cappella della propria famiglia in San Luigi dei Francesi; impiega tre anni a terminare le Storie di santa Cecilia, con le figure che derivano direttamente da statue classiche e dall'opera di Raffaello; intanto aveva dipinto La comunione di san Girolamo per la chiesa di San Girolamo della Carità, dove Filippo Neri aveva fondato il suo oratorio, ma ora nei Musei Vaticani. Il dipinto prende spunto da una lettera del XIV secolo, ma allora ritenuta scritta nel V secolo da Eusebio da Cremona, che descrive i particolari della morte del santo a novantasei anni, emaciato dalle privazioni. Al centro della tela è l'ostia, per sottolineare, secondo i dettami del Concilio di Trento, la reale presenza di Cristo nella comunione. Eseguito per l'altare maggiore di San Girolamo della Carità, il dipinto mostra riferimenti evidenti con la tela eseguita da Agostino Carracci per la chiesa bolognese di San Girolamo alla Certosa, riprendendone il colorismo raffinato ed l'attenzione agli effetti psicologici dei personaggi; rispetto al dipinto di  Nel 1623 inizia il Rimprovero ad Adamo ed Eva, che sarà donato dall'architetto André le Nôtre a Luigi XIV nel 1693. Eseguita su rame con una forte attenzione ai contrasti cromatici, l'opera ricorda la produzione di Adam Elsheimer, e, soprattutto di Paul Brill.

Melozzo di Giuliano degli Ambrosi, detto Melozzo da Forlì (1438 - 1494) >>>
Pittore e architetto italiano, massimo esponente della scuola forlivese di pittura nel XV secolo. Unì l'uso illusionistico della prospettiva, tipico di Andrea Mantegna, a figure monumentali rese con colori limpidi, vicine ai modi di Piero della Francesca. La luce tersa della sua pittura richiama quella dei "pittori di luce" fiorentini, come Domenico Veneziano e l'ultimo Beato Angelico. Fu il primo a praticare con grande successo lo scorcio dal basso, "l'arte del sotto in su, la più difficile e la più rigorosa".  A sua volta, Melozzo ebbe notevole influenza su importanti pittori del Rinascimento, come Michelangelo, Raffaello e il Bramante. "Non ci sarebbe stato il Cinquecento di Raffaello e di Michelangelo senza Melozzo", scrisse Antonio Paolucci.Tra i discepoli diretti, si segnala Marco Palmezzano, certamente il più famoso, anch'egli appartenente alla scuola forlivese. Altri pittori su cui Melozzo esercitò la propria influenza diretta furono: Lorenzo da Viterbo, Antoniazzo Romano e il cosiddetto Maestro dei Baldraccani.

Filippo Brunelleschi (1377 – 1446) >>>
Ingegnere, scultore, orafo e scenografo italiano del Rinascimento. Fu uno dei tre primi grandi iniziatori del Rinascimento fiorentino con Donatello e Masaccio. In particolare Brunelleschi, che era il più anziano, fu il punto di riferimento per gli altri due e a lui si deve l'invenzione della prospettiva a punto unico di fuga, o "prospettiva lineare centrica". Dopo un apprendistato come orafo e una carriera come scultore si dedicò principalmente all'architettura, costruendo, quasi esclusivamente a Firenze, edifici sia laici sia ecclesiastici che fecero scuola. Tra questi spicca la cupola di Santa Maria del Fiore, un capolavoro ingegneristico costruito senza l'ausilio delle tecniche tradizionali, quali la centina. Con Brunelleschi nacque la figura dell'architetto moderno che, oltre ad essere coinvolto nei processi tecnico-operativi, come i capomastri medievali, ha anche un ruolo sostanziale e consapevole nella fase progettuale: non esercita più un'arte meramente "meccanica", ma è ormai un intellettuale che praticava un'"arte liberale", fondata sulla matematica, la geometria, la conoscenza storica. La sua architettura si caratterizzò per la realizzazione di opere monumentali di ritmata chiarezza, costruite partendo da una misura di base (modulo) corrispondenti a numeri interi, espressi in braccia fiorentine, da cui ricava multipli e sottomultipli per proporzionare un intero edificio. Riprese gli ordini architettonici classici e l'uso dell'arco a tutto sesto, indispensabili per la razionalizzazione geometrico-matematica delle piante e degli alzati. Un tratto distintivo della sua opera è anche la purezza di forme, ottenuta con un ricorso essenziale e rigoroso agli elementi decorativi. Tipico in questo senso fu l'uso della grigia pietra serena per le membrature architettoniche, che risaltava sull'intonaco chiaro delle pareti.

Lorenzo Lotto (1480 - 1556) Fu tra i principali esponenti del Rinascimento veneziano del primo Cinquecento, sebbene la sua indole originale e anticonformista lo portò presto a una sorta emarginazione dal contesto lagunare, dominato da Tiziano. Si spostò quindi molto, accendendo con il suo esempio le scuole di zone considerate periferiche rispetto ai grandi centri artistici, come Bergamo e le Marche. La sua vicenda umana fu segnata da cocenti insuccessi e amare delusioni - in parte colmati dalla rivalutazione nella critica moderna - che fanno della sua figura un soggetto sofferto, introverso e umorale, di grande modernità.
Allegoria del Vizio e della Virtù (1505)La vita di Lorenzo Lotto è stata spesso segnata da un'inquietudine dovuta all'incapacità di cedere a compromessi in campo artistico o anche spirituale. Non cercò mai il facile successo e perciò si trovò ripetutamente in difficoltà economiche. Piuttosto che tradire i propri ideali preferì una vita raminga in cerca di committenti che potessero capirlo ed apprezzarlo. Dopo un breve periodo in cui godette di una certa fama, venne dimenticato e, nella sua Venezia, persino schernito. Dopo secoli di oblio, la sua figura fu riscoperta alla fine dell'Ottocento dal grande critico d'arte Bernard Berenson che ripercorse gli itinerari del peregrinare del Lotto svelando a poco a poco un eccellente artista rinascimentale, che poi fece conoscere al grande pubblico. Di lui Berenson scrisse: "Per capire bene il Cinquecento, conoscere Lotto è importante quanto conoscere Tiziano". La ricostruzione delle vicende biografiche e artistiche di Lotto si basa su un discreto numero di lettere autografe, soprattutto legate al periodo bergamasco, il testamento e il Libro di spese diverse, cioè il suo registro personale di entrate e uscite, tenuto negli ultimi anni di vita. Inoltre molte opere sono datate e firmate.
http://en.wikipedia.org/wiki/Lorenzo_Lotto

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