lunedì 16 settembre 2013

«Se parli male del fratello lo uccidi» ci ricorda di continuo Papa Francesco.

Motore mortale




(Dario Edoardo Viganò) «Su questo punto, non c’è posto per le sfumature. Se tu parli male del fratello, uccidi il fratello. E noi, ogni volta che lo facciamo, imitiamo quel gesto di Caino, il primo omicida» ha detto il 13 settembre Papa Francesco. E qualche tempo fa: «Disinformazione, diffamazione e calunnia sono peccato!», anzi, è «dare uno schiaffo a Gesù nella persona dei suoi figli, dei suoi fratelli». E ancora: «Una comunità, una famiglia viene distrutta per l’invidia che semina il diavolo nel cuore e fa che uno parli male dell’altro». Anestetizzati dai giochi di parole che rendono vero il falso, appetibile il male, seducente l’amputazione della verità, veniamo di colpo risvegliati alla responsabilità personale del nostro dire da Papa Francesco.
Il comunicare — una dimensione che pure evoca comunione, condivisione — esibisce a volte, per il peccato dell’uomo, forme di peccato come la menzogna, la calunnia, l’adulazione, la sicumera e la millanteria: modulazioni della parola che «anziché rivelare amore di vita, luce di verità, comunione interpersonale, produce odio, menzogna e discordia» (Carlo Maria Martini, In principio la Parola). E ciò che c’è in gioco non è semplicemente una performance comunicativa, ma la verità del nostro essere uomini e donne perché — citando ancora Martini — «nella povertà della parola si rivela la povertà del nostro essere».
La calunnia è peccato, ha ricordato Papa Francesco. Nella Bibbia la menzogna non solo è peccato, è violenza: «Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Giovanni, 8, 44).
Peccato e violenza di cui l’evangelista Marco dispiega la dinamica: nel suo vangelo quelli che meglio conoscono Gesù sono i demoni che Gesù zittisce. Perché il Maestro li fa tacere? Forse perché non è ancora il tempo in cui è opportuno che sia svelato il suo mistero profondo. Ma forse, e più verosimilmente, esiste anche un altro motivo: Gesù li zittisce perché i demoni dicono male la verità di Gesù. Affermano infatti: «Io so chi tu sei, il santo di Dio» e allo stesso tempo aggiungono: «Sei venuto a rovinarci?» (Marco, 1, 24). La retorica del male oscilla tra la personale responsabilità («Io so chi tu sei») e la condizione di chi coltiva una pessima immagine di Dio («Sei venuto a rovinarci?»). Lo stesso accadde al serpente della Genesi che dice il vero ma — giocando sinuosamente con il linguaggio — insinua dubbio, ambiguità e sospetto.
Qualcuno potrebbe obiettare che nella Bibbia esiste anche una parola dura, anzi insostenibile: la parola di profezia che ha il sapore della minaccia in vista però della conversione e della salvezza. «La parola di Dio, infatti, è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a due tagli e penetra fino alla divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, ed è in grado di giudicare i pensieri e le intenzioni del cuore. E non vi è alcuna creatura nascosta davanti a lui, ma tutte le cose sono nude e scoperte agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto» (Ebrei, 4, 12-13).
La parola di Dio, dunque, giunge laddove null’altro può giungere, nei luoghi più nascosti dell’uomo, e come bisturi amputa il marcio che risiede nel cuore dell’uomo. Operazione dolorosa ma inevitabile perché non giunga, inesorabile, la morte totale. Ma, appunto, è parola profetica, di chi parla in nome di Dio.
Dal punto di vista del linguaggio la menzogna è caratterizzata dal voler produrre un preciso effetto sul piano pragmatico. Potremmo dire che menzogna, calunnia, sicumera, millanteria e adulazione sono forme strumentali del linguaggio che gioca sulla dialettica tra essere e apparire. Se definiamo la menzogna come «un apparire ciò che non si è», possiamo ritrovare in tutte le forme ricordate un’attitudine di fondo al mascheramento di sé attraverso il linguaggio, che viene utilizzato come arma dispiegata a partire da una sequenza di mosse e contromosse tramite le quali cercare un vantaggio personale.
Il linguaggio può puntare sul potere o sul volere: nel primo caso le mosse del linguaggio si dispiegheranno sull’intimidazione o sulla provocazione; nel secondo, in gioco ci sarà la promessa di qualcosa di appetibile, e le mosse punteranno sulla seduzione o sulla tentazione. Nel gioco di mosse e contromosse, la questione è della verità dell’uomo.
«Quanto si chiacchiera nella Chiesa! Quanto chiacchieriamo noi cristiani! La chiacchiera è proprio spellarsi eh? Farsi male uno all’altro. Come se volesse diminuire l’altro, no? Invece di crescere io, faccio che l’altro sia più basso e mi sento grande». La chiacchiera non ha semplicemente come esito strategico la diminuzione dell’altro, ma rivela il motore interiore — a volte consapevole, a volte talmente radicato nel cuore da divenirne habitus e, dunque, inconsapevole — che è l’invidia, dinamica ferocemente distruttiva. Infatti una persona invidiosa, non desidera arrivare dove un altro è giunto: vuole con tutte le forze e a tutti i costi che l’altro non abbia ciò che ha. L’invidia conduce sempre alla morte, come ricorda la Genesi.
Non è un caso che il serpente, nella tradizione mesopotamica, è il chiacchierone, colui che usa con astuzia la parola, lusinghiero al punto che appena apre bocca facilmente si cade nella sua rete; ma è anche, nella tradizione egizia, emblema dell’ambiguità: il suo veleno, infatti, è anche farmaco.
Nel racconto biblico, l’azione del serpente è quella di creare sospetto su Dio. Lui, il menzognero, il padre della menzogna, inizia così il dialogo con Eva: «È vero?». Il serpente disorienta, sposta l’attenzione e insinua il sospetto che Dio è geloso. In altre parole, costruisce la domanda oscurando il dono di Dio («potete mangiare di tutti gli alberi»), formulando la frase lasciando intendere che Dio ha proibito di mangiare di ogni albero. Eva sembra prendere le distanze da questo modo di dire la verità al punto che rettifica l’affermazione del serpente, ma nel suo cuore già si insinua l’idea che Dio impedisce di mangiare e, dunque, di vivere. Il serpente è invidioso e non sarà soddisfatto fin quando l’altro (l’essere umano, maschio e femmina) non avrà perduto ciò che lui ha già perso.
Il serpente ha perduto il rapporto con Dio e vuole che anche l’uomo smarrisca il suo essere a immagine e somiglianza. Infatti che senso ha l’affermazione del serpente «quando ne mangiaste sarete simili a lui», visto che l’uomo è stato creato «a immagine e somiglianza con Dio»? Il serpente dunque vuole che anche l’uomo, come lui, perda il legame e l’intima relazione con Dio e la sua invidia è soddisfatta quando Eva afferra il frutto e lo passa ad Adamo.
Ecco la logica di chi mente: ritagliare per sé una posizione di vantaggio, nascondendo dietro l’uso retorico del linguaggio le proprie reali intenzioni e dissimulando il lavoro linguistico necessario a produrre un effetto di oggettivazione che non corrisponde all’oggettività ma la simula. Qual è la radice del male che porta all’uso pragmatico del linguaggio per la costrizione del vantaggio personale? È frutto della mentalità «di tipo proprietario e padronale nei confronti della propria e dell’altrui persona» (Carlo Maria Martini, Itinerari educativi).
Se il motore della menzogna è l’invidia, la forza della calunnia sta nell’indossare la maschera dell’onestà per simulare in modo più o meno credibile il mascheramento di qualcosa che nella realtà non esiste. Si affermano cose false come se fossero vere. Se la menzogna è distruzione della verità di se stessi, la calunnia non è meno grave. È ancora il Vangelo a istruirci. «Gli risposero i giudei: non diciamo con ragione noi che sei un samaritano e hai un demonio?» (Giovanni, 8, 48). La calunnia non solo dice male la verità di Dio in Gesù, ma predica il falso come vero: questo rende la calunnia un peccato imperdonabile. Infatti, «chi è più pericoloso, chi colpisce con la spada o con la freccia? Certo il secondo, perché chi colpisce con la spada — si legge in un testo della tradizione ebraica — può uccidere solo un uomo che gli sta molto vicino, mentre chi colpisce con la freccia, può scagliarla addosso all’avversario dovunque si trovi: Perciò chi sparge calunnie è paragonato a chi lancia frecce». E conclude: «Vedi, dunque quanto è pericolosa la calunnia! Essa è peggio dello spargimento di sangue» (Tanchuma, Mezorah, 2).
Ancora qualche parola sulle ultime maschere: il millantatore indossa la maschera del confidente vestendo i panni di un consigliere oggettivo e disinteressato (per la verità adulatore). Anche in questo caso la parola di Dio è profeticamente tagliente: «Faccia tacere il Signore le labbra adulatrici, la lingua che vanta imprese grandiose, quanti affermano “con la nostra lingua prevaliamo, con le labbra che abbiamo chi sarà nostro signore?”» (Salmi, 12, 4-5). Chi ha sicumera assume l’arrogante maschera di chi è certo che pochi indizi siano sufficienti per elaborare una teoria. E muove la propria esistenza nella logica dell’impaziente che vuole gestire e controllare un discorso per proiettare un effetto di realtà.
Non proprio discendente dalla menzogna ma suo parente stretto è il moralismo. Il moralista è il sanzionatore del comportamento altrui, qualcuno cioè che ritaglia per sé il ruolo vantaggioso di un destinante che non risponde ad altri se non a se stesso. Benedetto XVI, il 13 febbraio 2013, mercoledì delle Ceneri, ha ricordato: «Ai giorni nostri molti sono pronti a stracciarsi le vesti di fronte a scandali e ingiustizie — naturalmente commessi da altri — ma pochi sembrano disponibili ad agire sul proprio cuore, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnova e converta».
Sarà possibile una conversione? La suggerisce san Paolo scrivendo alla comunità cristiana di Corinto: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo» (1 Corinzi, 6, 15). Una parola che ricorda come sia necessario un atteggiamento di custodia del nostro cuore, del nostro sguardo, della nostra parola e dei nostri sensi.

L'Osservatore Romano

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